L'Onore delle armi all'Amba Alagi e la Campagna d'Africa Italiana
- Alessio Benassi
- 17 mag
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 19 mag

La resa dell'Amba Alagi e l'onore delle armi
Il 17 maggio del 1941, sulle vette abissine del Amba Alagi, si assiste a una scena carica di pathos e onore: le forze italiane, guidate dal Viceré dell'Africa Orientale Italiana, Sua Altezza Reale il Duca Amedeo d'Aosta, si arrendono alle forze britanniche, le quali rendono l'onore delle armi ai vinti.
I soldati italiani, stanchi, senza viveri e senza munizioni, si sono arresi dopo un'accanita resistenza, dando molto filo da torcere alle forze inglesi, le quali, ammirate, vollero riconoscere il grande valore degli italiani.
La campagna in Africa Orientale: un fronte dimenticato
Può sembrare strano. Sovente siamo abituati a considerare il ruolo italiano nel secondo conflitto mondiale, come marginale e foriero di risvolti unicamente disastrosi. Se è un fatto che la nostra nazione entrò nel conflitto altamente impreparata, dal punto di vista economico, strategico e di qualità degli armamenti; vanno altresì riconosciuti il grande valore e il senso profondo del dovere che questi uomini profusero, in condizioni disperate.
Oltre ai fatti dell'Amba Alagi, che qualcuno ricorda timidamente, la nostra campagna in Africa Orientale oggi tende a cadere miseramente nel dimenticatoio, ripercorriamone le fasi e le battaglie fondamentali.
L’ingresso in guerra e le prime difficoltà
Con l'ingresso dell'Italia in guerra, il 10 giugno del 1940, Mussolini cercava la vittoria rapida, illuso dai successi tedeschi, mentre scettici rispetto alla campagna, erano alcuni nostri militari, e lo scenario africano non manifestava grandi speranze.
A Palazzo Venezia il governatore della Libia, Italo Balbo, e il Viceré, Amedeo d'Aosta, insieme ad altri esponenti dei vertici militari, avevano manifestato i rischi della nostra impreparazione, ma la volontà di Mussolini non fu scalfita: «L'impero farà da solo», cioè sarà abbandonato a se stesso.
Una posizione strategica ma isolata
La situazione in Africa non fu rosea, sul posto erano presenti 90.000 soldati provenienti dalla penisola e 200.000 àscari, addestrati a difendere e contenere i ribelli abissini (sostenuti e sovvenzionati da Londra e Parigi).
I nostri domini nel Corno d'Africa erano circondati dai possedimenti britannici e, come se ciò non bastasse, potevano essere riforniti solo tramite il canale di Suez (controllato sempre da Londra).
Ma c'è anche da dire che gli inglesi temevano la posizione delle nostre colonie, che, infatti, potevano colpire Suez e le aree britanniche più vulnerabili.
Il raid di Ettore Muti
Basti pensare al raid aereo di Ettore Muti, che, da Rodi, colpì i pozzi petroliferi inglesi in Iraq, sostò ad Addis Abeba e poi ritornò, come nulla fosse, in Italia. Tale eroica azione fu un duro colpo, perché attaccò rifornimenti vitali per l'Impero britannico, ma, purtroppo, il nostro alto comando non colse a fondo la potenza di questa azione e proseguì con una guerra "sull'uscio di casa".
Fu così che le disposizioni furono assai "generiche", in Etiopia i nostri militari dovevano avere: «[…] contegno difensivo, controffensivo solo se attaccati, è fondamentale innanzitutto evitare sollevamenti della popolazione. Per il resto si mettano in opera sistemazioni campali sulle più probabili direttrici d'avanzata nemica e si provveda ad allestire nuclei mobili di forza commisurata alle prevedibili necessità operative».
Questo, comunque, non "scompose" il realismo dei nostri militari, il Generale Guglielmo Nasi (uno dei migliori in A. O. I.), riportò: «[...] Non abbiamo nulla. Non siamo preparati. Abbiamo poche armi antiquate di preda bellica della guerra 1915-1918. Non abbiamo artiglieria moderna, non abbiamo carri armati, non abbiamo munizioni né aviazione. Vuol dire che faremo disperatamente il nostro dovere.»
Le prime azioni offensive italiane e la conquista della Somalia inglese
Le prime azioni offensive nel 1940, furono per gli italiani, che a luglio occuparono Cassala, in Sudan, e ad agosto il Somaliland inglese. Azioni che per Roma avevano una valenza più "simbolica", per dare peso alla posizione italiana al tavolo delle trattative, come disse Badoglio in un telegramma al Duca d'Aosta: «Sù [sic] da bravi! Bisogna portare al tavolo della pace anche un pegno coloniale».
Non la vedeva così Archibald Percival Wavell, che percepì l'azione contro Cassala come una minaccia reale, infatti, gli inglesi avevano pochissimi uomini in Sudan e non pensavano di poter contrastare una seria avanzata italiana. Il nostro attacco, però, rimase limitato.
La conquista della Somalia inglese fu descritta dal generale Nasi in questi termini: «il nostro strumento militare era strumento di guerriglia più che di guerra, non preparato quindi, nemmeno per temperamento, ad affrontare il problema tattico complesso che si trovò di fronte.
Come anche le perdite subite stanno a dimostrare, la lotta è stata dura, anzi durissima, sì da far dubitare di poterla spuntare, senza un rinforzo di truppe fresche». I risultati furono perdiete e costi elevati: «troppo sangue, troppe munizioni, troppo materiale».
Il tracollo del 1940 e l’offensiva inglese
Negli ultimi mesi del 1940, l'offensiva inglese in Egitto, l'Operazione Compass fù un disastro per la 10° Armata italiana, la Cirenaica invasa, la nostra Marina colpita a Taranto e l'invasione della Grecia sarà un terribile fiasco, con morti e feriti.
A gennaio del 1941, nel settore Nord, gli inglesi passarono all'offensiva, ingaggiando battaglia ad Agordat. Qui, la disparità tra le forze appiedate italiane e le unità motorizzate britanniche fu palese, il sacrificio nei nostri connazionali e degli ascari fu comunque notevole.
La cavalleria coloniale e l’azione di Amedeo Guillet
Va ricordata la morte sul campo del Generale Orlando Lorenzini e, soprattutto, l'attacco disperato e spregiudicato degli squadroni di Cavalleria coloniale Amhara, comandati dal Barone Amedeo Guillet (in seguito noto come "comandante diavolo", proprio per via di questa azione coraggiosa).
L'ufficiale britannico che subì l'attacco riportò: «Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò dal Nord, piombando giù dalle colline.
Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando di sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero.
Le granate scivolavano sul terreno senza esplodere, mentre alcune squarciavano addirittura il petto dei cavalli. Ma prima che quella carica di pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici».
La battaglia di Cheren: eroismo e sconfitta
Il passo successivo degli inglesi fu l'attacco all'Eritrea italiana, il Generale Platt puntava sul centro abitato di Cheren sperando in una vittoria. Ma qui il Generale Carnimeo mostrò grande astuzia, sfruttando la morfologia del terreno, gli italiani diedero battaglia con una strenua resistenza tra le ambe.
Dal 2 febbraio al 27 marzo, la battaglia fu aspra e sanguinosa, le artiglierie italiane colpirono dall'alto gli attacchi britannici, che, per via del terreno roccioso, dovettero lasciare insepolti i propri caduti. La vittoria difensiva italiana, nella prima fase, fu un duro colpo per Londra, il generale Archibald Wavell scriverà a Winston Churchill:
«Cheren si sta dimostrando una noce dura da schiacciare, il nemico ci sta contrattaccando ferocemente e ripetutamente e, anche se le sue perdite sono state eccessivamente pesanti, non vi sono segni immediati di cedimenti.»
Nella seconda fase, iniziata il 15 marzo, le forze inglesi si lanciarono all'attacco del monte Forcuto e del passo del Dongolaas e le forze italiane, nelle trincee sassose e nelle pietraie arse dal sole, combatterono con bombe a mano e corpo a corpo fino al 27 marzo, quando ogni resistenza cessò, lasciando sul campo decine di migliaia di caduti.
Il bollettino di guerra n°294 del 28 marzo 1941, ne dava così la triste notizia: «Dopo sei settimane di ininterrotta sanguinosa battaglia, le truppe nemiche hanno occupato Cheren. La battaglia continua nelle immediate vicinanze.»
L’eroismo italiano secondo gli stessi britannici
Nel resoconto della battaglia, dato nella Eastern Epic, Compton Mackenzie scrisse: «Cheren è stata una delle più dure battaglie di fanteria mai combattute in questa guerra e ciò per l'ostinazione mostrata dai battaglioni Savoia, dagli Alpini, dai Bersaglieri e dai Granatieri, in una maniera composta e decisa, cosa mai mostrata dai tedeschi in nessuna battaglia recente.
Nei primi cinque giorni di battaglia gli italiani hanno contato 5.000 soldati colpiti (1.135 di questi, mortalmente).
Lorenzini questo giovane e coraggioso generale, è stato praticamente decapitato da una serie di colpi sparatigli dall'artiglieria britannica. Egli è stato un grande comandante delle truppe italiane in Eritrea.
L'infelice propaganda di guerra del tempo ha permesso alla stampa britannica di rappresentare gli italiani come soldatini di ventura; ma se escludiamo la divisione paracadutisti tedesca operante in Italia e i giapponesi attivi in Birmania, nessun esercito nemico col quale le truppe britanniche ed indiane hanno dovuto scontrarsi, ha saputo ingaggiare una battaglia più acre ed efficace di quella dei battaglioni Savoia a Cheren.
Oltre ciò, le truppe coloniali italiane, fino al momento di capitolare sulle ultime postazioni, hanno combattuto con valore e coraggio e la loro lealtà in campo è stata testimone della eccellente amministrazione italiana e della valida preparazione militare operata in Eritrea.»
L'assedio dell'Amba Alagi
La caduta di Cheren porterà all'occupazione inglese dell'Eritrea, nel mentre lo scacchiere Sud vedrà la caduta della Somalia. Fu in questo scenario tragico che, il 17 aprile del 1941, il Duca d'Aosta, con 7.000 uomini e 40 pezzi d'artiglieria da 65/17, si asserragliò sull'Amba Alagi.
Un resistenza disperata, un manipolo di italiani circondati da 41.000 soldati britannici, guidati da Sir Alan Gordon Cunningham. Una pagina epica, densa di coraggio e senso del dovere che varrà l'onore delle armi al Duca e ai suoi uomini.
Sua Altezza ricorderà i momenti della resa e dell'onore ricevuto con queste parole: «Il mio comando è finito. L'angoscia e il dolore di soldato, in questa ora tragica è immenso; ma ho il conforto di aver fatto tutto il mio dovere, di cadere in piedi, con onore. Non potevo tenere un'ora di più. (...) il nemico ha reso onore al nostro valore ed i miei soldati possono essere fieri di aver combattuto sull'Amba Alagi.
L'atto finale è stato eroico e l'epilogo ordinato e pulito. Ringrazio Iddio di avermi concesso questa consolazione nel grande dolore di questi giorni, nei quali ho perduto l'ultima battaglia, (per ora).»
Gondar e la battaglia di Culqualber
Da giugno a novembre del 1941, a Gondar, il generale Nasi condurrà un'altra accanitissima resistenza contro gli inglesi, che vedrà anche l'episodio della battaglia di Culqualber, le "Termopili africane". Qui, i Carabinieri Reali, le Camicie Nere e gli Ascari fermano gli attacchi soverchianti degli inglesi, 2.900 uomini contro 22.500 resistettero per mesi, guadagnandosi anocra una volta l'onore delle armi.
La caduta di Gondar segnerà la fine dell'Impero italiano in Africa, di questa epica battaglia rimarrà la canzone:
«Se non ci conoscete, guardate il nostro pane,noi siamo i gondarini che sanno far la fame.
Se non ci conoscete, tenetelo a memoria, noi siamo i gondarini che fuman la cicoria.
L’inglese ci conosce, si morde i pugni e ringhia, noi siamo i gondarini che stringono la cinghia.
Gl’indiani ci conoscono e anche i sudanesi,noi siamo i gondarini incubo degli inglesi
Se non ci conoscete, leggete i nostri casi,noi siamo i gondarini del generale Nasi.
Se non ci conoscete, lasciatevelo dire,noi siamo i gondarini, i duri da morire".»
La guerriglia italiana in Africa orientale
Ma la nostra storia non finisce a Gondar, infatti, circa 7.000 soldati italiani e ascari non accettarono la resa e continuarono un'accanita, disperata e coraggiosa guerriglia in Africa orientale.
Uno dei protagonisti di queste azioni, era, appunto, il sopracitato Amedeo Guillet. Il "Commundàr es Sciaitan" (Comandante diavolo), con le sue bande indigene diverrà l'incubo dei britannici e un eroe per gli Ascari.
Con i suoi fedelissimi assaltò gli avamposti inglesi, depredò magazzini e distrusse reti ferroviarie e ponti: nonostante la lauta taglia offerta dall'intelligence britannica, la popolazione civile lo sosteneva, lo nascondeva e lo foraggiava.
Nel 1943, eludendo ancora gli inglesi, passò per lo Yemen e tornò in Italia.
Così si conclude la nostra storia, fatta di coraggio, abnegazione e onore. Che racconta come i nostri soldati, seppero sfruttare il terreno e le poche risorse disponibili per fermare forze superiori per numero e per mezzi. Che racconta il sacrificio dei nostri ascari, che mai abbandonarono la bandiera italiana, segno del profondo legame che si era creato con le nostre colonie. Una storia oggi colpevolemente nascosta e dimenticata.
Alessio Benassi
Comments