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La «TV del dolore»: Alfredino, Yara, Garlasco... ovvero della morbosità travestita da informazione

Aggiornamento: 12 minuti fa

Da Alfredino a Garlasco, 40 anni di TV del dolore: quando l’informazione cede allo share e trasforma la tragedia in spettacolo morboso.



La nascita della «TV del dolore»


Era il 10 giugno 1981 quando, con la tragedia di Alfredino Rampi, scoppiò in modo dirompente la tendenza alla famigerata “Tv del dolore”. Alfredino era un bambino di 6 anni, che morì dopo tre lunghissimi giorni di agonia, intrappolato in un cunicolo largo 28 cm e profondo oltre 60 metri.


In nome di un fantomatico “diritto di cronaca”, la TV (o meglio la Rai, poiché all’epoca deteneva il monopolio!) trasformò questa immane tragedia in un orrendo circo mediatico.


Come iene fameliche, i "giornalisti" organizzarono dirette tv infinite. Un microfono fu calato nel pozzo, in realtà – inizialmente – sarebbe dovuto servire per mettere il bambino in contatto con i soccorritori, ma fu invece usato per accrescere il voyeurismo morboso dei telespettatori, trasmettendo in diretta la voce, sempre più flebile, del bambino che, disperato, chiamava la sua mamma.


Non fu solo Alfredino a sprofondare in quel pozzo, insieme a lui vi sprofondò anche l’informazione televisiva, che da quel momento cedette al richiamo dell’audience. Per la prima volta toccò il fondo e da allora non ha mai smesso di scavare.


L’infoteinment e la perdita dell’etica


Nacque così la cosiddetta “TV del dolore”. Ma siccome quel termine era troppo forte, fu coniato il neologismo, davvero squallido, infotainment, crasi tra information ed entertainment.


Oggi, nel rievocare quella storia, Piero Badaloni, all'epoca conduttore del Tg1, quindi direttamente coinvolto nella narrazione della tragedia, rivela con amarezza:


«Ci rendemmo conto progressivamente che quel fatto di cronaca locale stava diventando un evento nazionale, un evento anche televisivo che avrebbe fatto la storia della televisione. E mandando in diretta il dialogo tra Alfredino e la mamma si superò una linea di sensibilità che non avrebbe mai dovuto essere superata! Per la prima volta, la tv, spettacolarizzava il dolore».

Sono passati 44 anni da quel 10 giugno 1981, e la TV ha trovato un filone moderno e attuale che richiama tragicamente il panem et circenses dell’epoca romana.


Spettacolarizzazione e perdita della verità


Quando la spettacolarizzazione strumentale della tragedia non è essenziale alla comprensione del fatto di cronaca raccontato ma diventa un mero strumento per accrescere il pathos, siamo sintonizzati sulla “televisione del dolore”.

Telecamere puntate su persone in lutto, pianti strazianti, primi piani di occhi persi nella disperazione, domande retoriche, rallenty e replay utilizzati per amplificare la tragicità, fanno perdere il contatto con la verità e con la pertinenza della trattazione.

La maggior parte delle trasmissioni del mattino (senza distinzione tra reti Rai e tv commerciali) si occupano esclusivamente di fatti tragici in maniera morbosa. E non parliamo poi delle trasmissioni in prima serata.

I casi di Saman e Yara, ovvero l’abuso del dolore altrui


Non possiamo dimenticare la morbosità con cui è stata trattata in TV l’assassino della ragazza pakistana Saman, e ancor prima quello di Yara Gambirasio (ma l’elenco è ben più lungo).

Programmi televisivi che, sotto le sembianze di approfondimenti giornalistici, spettacolarizzano le vicende, giocano con le emozioni e mettono in scena il dolore di parenti e amici delle vittime.

Per il filosofo Carmine Castoro, queste trasmissioni, protagoniste del mondo televisivo moderno, «invece di rappresentare in maniera complessa il male, ce ne danno una fiaba distorta ovvero una misperception».

Gli esperti in comunicazione descrivono questo fenomeno con il termine information overflow, ovvero un eccesso di informazioni che genera un falso senso di comprensione. Gli spettatori sono talmente bombardati di contenuti che finiscono per confondere l’intrattenimento con l’informazione.

I limiti giuridici (ignorati) del diritto di cronaca

Nel 1984, al fine di arginare questa deriva, la Corte di Cassazione fissò tre condizioni a cui la stampa dovesse attenersi per esercitare “il diritto di stampa”, stabilendo il confine tra il diritto di cronaca (sancito dall’art. 21 della Costituzione) e altri diritti costituzionali come la dignità umana e la riservatezza.

  1. L’utilità sociale dell’informazione

  2. La verità (oggettiva o anche soltanto putativa)

  3. La forma civile della esposizione dei fatti e della loro valutazione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire!

A nulla, però, servirono questi paletti, visto che, è sotto gli occhi di tutti, questi programmi di infotainment violano costantemente e palesemente quei principi.

La schadenfreude e lo sciacallaggio mediatico


Ora uno sguardo sociologico e filosofico: c’è un termine tedesco che descrive perfettamente questo fenomeno, schadenfreude, ovvero il sottile piacere che si prova di fronte alle disgrazie altrui.

Il filosofo Arthur Schopenhauer lo definì, a suo tempo, un sentimento “diabolico”. Un concetto intraducibile in italiano, che potremmo rendere con il termine “sciacallismo”.

L’iniziale pietas e l’empatia cedono presto il passo alla chiacchiera da salotto, soddisfacendo la curiosità per i retroscena piccanti e per il gossip.

A ciò si aggiunge un rischio anche ben più serio: lo spirito di emulazione che può nascere in menti disturbate, attratte dai dettagli su come “non farsi scoprire”!

Il caso Poggi e l’assalto mediatico al processo


Ultimamente i media sono tutti galvanizzati dalla riapertura delle indagini sull'omicidio di Chiara Poggi a Garlasco. Dopo 18 anni!

In qualsiasi rete si è scatenato il “circo Barnum” di opinion makers, psicologi e tuttologi, guidati dall’intrattenitore o intrattenitrice di turno, intenti a rievocare i fatti d’epoca in nome del dio share. Infarcendo, tra l’altro, i pseudo-servizi con insinuazioni e sospetti che finiscono per ledere l’immagine e il dolore delle persone coinvolte, in violazione di un altro diritto costituzionale, quello alla presunzione di “non colpevolezza” (ex art.27 Cost.).

Insomma, la totale mancanza di rispetto nei confronti di deontologia professionale, che dovrebbe essere la base di qualsiasi attività giornalistica giornalista.

Il caso Stasi: i principi del diritto calpestati


Concludendo in relazione al “delitto di Garlasco”, Alberto Stasi, ex fidanzato della vittima, fu assolto sia in primo che in secondo grado.

Nel 2013, la Corte di Cassazione annullò la sentenza di assoluzione, sottolineando nella motivazione come fosse difficile «pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza» e che fosse quindi «impossibile condannare o assolvere Alberto Stasi». La Corte scelse di non confermare l’assoluzione, rimandando la decisione a nuovi esami scientifici.

Infine, 2014, al processo d'appello di rinvio, Stasi venne ritenuto colpevole e condannato a 24 anni di reclusione, per omicidio volontario (pena poi ridotta a 16 anni).

Senza entrare nei dettagli tecnici giuridici, non si può ignorare che Stasi fu assolto due volte, e che si tratta a tutti gli effetti di un processo indiziario: non è mai stata trovata quella che, nei telefilm americani, viene chiamata “the smoking gun”, ovvero la prova schiacciante e incontrovertibile di un crimine.

I principi del giusto processo dimenticati


Anche uno studente di giurisprudenza alle prime armi (mai espressione fu più azzeccata) o qualsiasi amante dei legal thriller di John Grisham o Scott Turow conosce tre principi cardine della giurisprudenza come:

  • in dubio pro reo: in caso di dubbio, è necessario tutelare l’imputato, preferendo l’assoluzione piuttosto che rischiare di condannare un innocente.

  • ne bis in idem: nessuno può essere processato due volte per lo stesso fatto. E Stasi è stato assolto due volte.

  • Contro ogni ragionevole dubbio: che indica un livello di probabilità della colpevolezza molto elevato, tale da non lasciare spazio a dubbi ragionevoli sulla colpevolezza o innocenza dell'imputato.


Vincenzo Mangione

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