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Se questa è destra: la Lega porta l’educazione sessuale alle medie

Sembrava finita la stagione delle concessioni culturali, quella in cui il centrodestra, una volta al governo, si trovava a inseguire l’agenda dei suoi avversari. Sembrava. Perché la vicenda dell’educazione sessuale alle medie racconta esattamente il contrario: un nuovo dietrofront, una resa mascherata da “mediazione”.


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La Lega, dopo aver imposto il divieto di trattare temi sessuo-affettivi nelle scuole inferiori, ha cambiato rotta. Con un emendamento approvato in Commissione Cultura alla Camera, l’educazione sessuale potrà entrare anche alle medie, a patto che ci sia il consenso informato dei genitori.

Una formula apparentemente prudente, ma che, nei fatti, apre la porta a ciò che il partito di Salvini aveva giurato di fermare: la normalizzazione della sessualità precoce e dei modelli culturali che l’accompagnano.

Il passo indietro della Lega


Il disegno di legge, intitolato Disposizioni in materia di consenso informato in ambito scolastico, era nato per riaffermare un principio: l’educazione dei figli spetta prima di tutto alla famiglia. Il testo originario, sostenuto dalla deputata Giorgia Latini e dal ministro Giuseppe Valditara, escludeva in modo netto ogni forma di educazione sessuale non strettamente scientifica o medica dalle scuole dell’infanzia, elementari e medie.


Poi, qualcosa è cambiato. Dopo le polemiche delle opposizioni, l’imbarazzo mediatico e i titoloni sui “divieti oscurantisti”, la stessa Lega ha depositato un nuovo emendamento: via il divieto per le scuole medie, purché i genitori diano il loro consenso scritto.


Una mossa presentata come “chiarimento tecnico”, ma che di tecnico non ha nulla. È un segnale politico preciso: per la Lega i principi non negoziabili sono più che negoziabili.


Il ministro ha assicurato che «l’educazione sessuale continuerà a essere insegnata in modo corretto», senza derive ideologiche. Ma le parole suonano stonate in un contesto in cui il problema non è il “come”, bensì il “perché”.


Perché introdurre l’educazione sessuale a undici anni, quando ancora il senso critico è lontano dal suo sviluppo pieno? Perché sostituire la famiglia con corsi extracurricolari che inevitabilmente finiranno sempre per scivolare sul terreno delle teorie di genere?


La foglia di fico del consenso informato


Il nuovo compromesso finge di affidare la responsabilità ultima ai genitori. Saranno loro a decidere se i figli potranno o meno partecipare alle lezioni.


Il consenso informato, infatti, non garantisce libertà: genera, invece, classi spaccate, tra chi partecipa e chi resta fuori, tra i “progressisti” che autorizzano e i “conservatori”, che negano. In sintesi, trasforma anche la scuola – media! – in un campo di battaglia.


Dietro la formula burocratica del consenso informato si nasconde la più classica delle ipocrisie italiane: lo Stato lancia il sasso e poi se ne lava le mani.

E così, una volta ancora, la destra che ciancia di temi e diritti non negoziabili, quindi per definizione a-democratici, torna a rimettere le decisioni fondamentali alla mercé della maggioranza e della discrezionalità, per timore di essere definita illiberale.


Se il consenso misura è di tutto, quale possibilità di difendere principi più alti, quali la verità che la sana sessualità non è un argomento scorporabile, da trattare a scuola – anche in modo asettico – bensì una conseguenza di una corretta concezione della persona e della propria vita?


L'opposizione festeggia


La sconfitta è anche strategica e politica, non è solo valoriale. Le opposizioni, ça va sans dire, hanno accolto con favore il cambio di rotta, parlando di “vittoria del buonsenso”.


Irene Manzi, capogruppo Pd in Commissione Cultura, ha parlato di «passo avanti verso la libertà educativa», mentre la senatrice Cecilia D’Elia ha definito “anticostituzionale” ogni forma di veto su questi temi. Dietro queste parole, a differenza che nella destra, c’è un disegno culturale preciso: demolire l’idea che l’educazione morale dei figli spetti, in primo luogo, alla famiglia.


Matteo Salvini ha liquidato la questione con toni da bar sport: «via le ideologie gender e le schifezze del genere», ha detto, come se bastasse un’esclamazione colorita per garantire che, nei fatti, la scuola non diventi terreno di propaganda.


Eppure, da anni, i progetti di educazione affettiva promossi nelle scuole sono fatti di materiali ambigui, corsi tenuti da attivisti Lgbt o associazioni esterne, linguaggi che confondono identità e biologia. Pensare che un modulo “informato” e “neutrale” possa tenere fuori tutto questo è un’illusione.


Vuoto o mancanza di coraggio?


Questa vicenda rivela, più di ogni altra, i limiti della destra politica: in primo luogo la totale mancanza di una visione culturale, in secondo luogo, quando questa si dimostra presente, la totale mancanza del coraggio – che invece non manca mai alla sinistra – di tradurla in fatti, fregandosene di critiche e accuse.

La sinistra, nel bene o nel male, ha un progetto educativo: crede in una scuola che formi cittadini del mondo, fluidi, intercambiabili, svincolati da tradizioni e differenze sessuali. La destra, invece, non ha il coraggio di proporre, e portare a compimento, nulla.


Non si tratta solo di educazione sessuale: è una questione antropologica. Tanta destra difende la famiglia nei comizi, ma la dimentica nei decreti.

 
 
 

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