Come sappiamo bene, a seguito del ritiro dalla corsa per le elezioni presidenziali di Joe Biden, il sostituto-candidato più papabile, tra le personalità di spicco del Democratic Party, è Kamala Harris, attuale Vicepresidente degli Stati Uniti.
La nomination vera e propria, ovvero l’incarico di rappresentare il partito nella sfida contro il repubblicano Donald Trump, arriverà in agosto, prima della convention di partito che si terrà tra il 19 e il 22. Già il 7, assicurano i vertici del partito, i delegati democratici potranno votare per la nomination e sembra che alla Harris sia assicurato il supporto di 2.200 delegati, più dei 1.976 necessari.
Nelle valutazioni dei delegati, avranno sicuramente un peso importante, nel favorire la Harris, l’innegabile esposizione mediatica che la carica le ha conferito nel corso dei 4 anni passati, l’accesso diretto ai finanziamenti già stanziati per la campagna di Biden (a lei garantiti in quanto il ticket, l’accoppiata, era Biden-Harris) e l’innata, e cruciale, capacità della Harris stessa di assicurarsi nuove donazioni, dimostrata anche nei momenti in cui l’immagine pubblica di Joe Biden sprofondava nell’abisso.
Dall’altro lato, però, se è quasi certo che la Harris vincerà la “sfida interna” è altresì evidente che avrà parecchia difficoltà a sconfiggere Donald Trump, e non è solo questione di ideologia o posizionamento politico superficiale degli americani: la Harris sembra avere alcune lacune significative dove, invece, Donald eccelle.
Infatti, il 45º Presidente del Stati Uniti implementò, nel 2017, il Tax Cuts and Jobs Act, che ridusse le aliquote fiscali per le imprese dal 35% al 21%, stimolando una crescita economica importante e portando a un aumento del PIL del 2,9% nel 2018 (dati provenienti dalla sezione del Dipartimento del Lavoro degli USA). Da un lato, quello repubblicano, ci sono atti e dati chiari e netti, mentre la Harris non ha mai indicato una visione economica, foss’anche social-democratica, ma funzionale e pragmatica. Si ricordi l’agenda di rilancio Build Back Better, ad opera di Harris, che, anche approvata solo in parte dal Congresso, ha avuto un impatto imponente (e non in positivo) sull’economia americana, rischiando di generare aumenti delle imposte sulle persone fisiche e sulle imprese, accompagnata da una crescita significativa del debito pubblico e dell’inflazione.
Non si può, poi, non considerare la quasi inesistente esperienza diretta in politica estera di Harris, debolezza cruciale in un momento così complicato a livello internazionale. Il ruolo di Presidente, e Comandante in Capo, della “più grande democrazia del mondo” richiede una solida capacità di comprensione delle dinamiche geopolitiche e una altrettanto corposa capacità di negoziare con gli altri leader politici stranieri.
Come sappiamo, a Biden tutto ciò è mancato: tra una gaffe e l’altra - e ringrazi per le gaffe che hanno “coperto” gli errori seri - non è stato in grado né di interloquire in maniera consona con i grandi avversari (Xi Jinping chiamato dittatore, e il fatto che lo sia davvero non giustifica l’affermazione nel momento in cui il leader cinese si trova negli Stati Uniti a discutere autonomamente con imprenditori americani), né di frenare le follie non pianificate del suo entourage (Nancy Pelosi, che si reca a Taiwan per la propria passerella mediatica rischiando di mettere in crisi un equilibrio fondamentale e costringendo Biden ad affermare, in risposta, che gli Stati Uniti non interverrebbero militarmente a difesa della Repubblica di Taiwan).
Al contrario, pur con la sua impulsività e i suoi toni rocamboleschi, in barba a ogni accusa della stampa e degli avversari politici, Trump ha dimostrato a dovere le sue abilità di analisi e di dialogo (anche duro), per esempio con gli Accordi di Abramo, che hanno riorganizzarono i rapporti tra Israele e Paesi arabi fino ai tragici fatti del 7 ottobre.
Trump, inoltre, ha fatto, e fa tuttora, dell’immigrazione un tema portante della campagna elettorale e durante gli anni della sua Amministrazione le sue politiche migratorie (la costruzione e il rafforzamento del muro al confine con il Messico) hanno condotto a una riduzione del 53% degli ingressi illegali nel Paese nel corso del 2017. Al contrario la Harris, a cui Biden aveva assegnato la delega dell'immigrazione, ha promosso politiche umanitarie e inclusive che hanno destato preoccupazioni circa la sicurezza nazionale e la salvaguardia delle frontiere. Non a caso, nel 2021, l’attuale amministrazione ha visto un record di attraversamenti: si parla di circa due milioni di migranti entrati illegalmente dal confine USA-Messico.
Sembra pacifico affermare che Kamala Harris guiderà il Democratic Party contro Donald Trump, ma la caratura di questi due protagonisti della politica americana è incomparabile: dimenticando, per un attimo, che Kamala Harris è la scelta di rimpiazzo (dopo l’abbandono di un Presidente che, per evidenti impossibilità fisiche, si ritira dalla corsa ma che non si dimette) e dimenticando anche che Donald Trump è il candidato sopravvissuto, con stile, a un attentato, quindi considerando i due dal mero punto di vista politico, non sembra proprio esserci partita.
Riccardo Sartoretto