Comunemente si dice che capiamo il valore delle cose solo quando ci vengono tolte, solo quando le perdiamo. È il possibile vuoto che dà valore a ciò che è ora, l’assenza che si contrappone alla presenza.
Il cervello umano, qualcuno dice, procede per mancanza: ovvero si concentra sempre su ciò che manca, e ben poco su quello che ha; la letteratura elude questa dinamica.
La letteratura permette di conoscere intellettualmente, ma anche di sperimentare e conoscere emotivamente e perciò consente di entrare in contatto con le cose e comprenderne il valore prima di perderle.
La potenza della letteratura, e quindi della narrazione, è proprio questa: coinvolgere l’essere umano nella sua interezza, ragione e sensi.
Un buon narratore è tale se non si limita a far conoscere un fatto ma se trasporta chi legge in quel fatto, se lo rende vivo, presente alla mente e al cuore.
Il narratore è colui che conferisce cittadinanza universale a storie marginali. Incide il proprio tempo, lo segna più o meno in profondità, con la propria grammatica restituisce un’immagine della realtà.
Ecco, la crisi profonda che il settore letterario, crisi di pubblico e di lettori, sta attraversando è forse dovuta a questo: non accettiamo che la scrittura, e con lei il cinema, la musica e le altre forme d’arte, siano espressione della realtà per come è, senza avere necessariamente un fine ultimo, escatologico, una volontà di dimostrare un pensiero, un’idea.
Spesso l’opera non viene valutata per ciò che è, ma per quello che è il messaggio: se è buono, allora è anche vero e necessariamente diventa bello.
Se il messaggio che traspare non è buono, ovvero condivisibile secondo l’opinione diffusa, o non vi è alcuna morale allora anche il mezzo usato, l’opera in sé, perde valore.
Quasi a voler restituire della realtà una visione distorta positivamente, che elimina dalla narrazione tutti quegli aspetti che inquinano il nostro mondo.
Per questo, a mio avviso, ogni volta che si parla di libri, in particolare di nuove uscite, sembrano banali, scontate, come se tutto fosse già stato detto, già stato raccontato, quasi avessimo a che fare con un mondo che non muta.
A fronte di una realtà che cambia di minuto in minuto i modi di rappresentarla, le forme d’arte, sono congelati.
Narrare il male, raccontare le storie di abbruttimento, di violenza, di morte, attraverso i libri, i film, attraverso la musica diventa quindi un modo di sfuggire, di rompere il gelo che mantiene immobile l’arte. Il brutto e il cattivo è un oggetto degno di scrittura tanto quanto il bello e il buono.
Nel 1996, Jonathan Franzen nel saggio Perché scrivere romanzi s’interrogava su quale fosse stato l’ultimo libro in grado di colpire e incidere profondamente sulla vita degli americani, in grado di sconvolgerne la coscienza e trasformare l’immaginario dei cittadini statunitensi: Lamento di Portnoy di Roth è la risposta che si dà. Un libro che è essenzialmente la voce di un uomo, ebreo americano, che racconta la propria vita, fatta di rimorsi e privazioni, al suo psichiatra, un flusso di coscienza come ce ne potevano essere tanti. Ma allora perché sconvolse a tal punto l’opinione pubblica d’oltreoceano?
La potenza di Lamento di Portnoy è racchiusa nel tema che emerge con forza e vividezza dal romanzo: l’impurità, l’impurità del composto umano. Una cosa che la società americana, imbiancata di perbenismo, non poteva tollerare. Allora il libro divenne proibito, un libro osceno, non degno di essere definito letteratura.
Lamento di Portnoy ha inciso il suo tempo.
Oggi, la narrazione è ancora più importante: siamo immersi in un fluire continuo di informazioni, eppure nulla ci tange. Anestetizzati, lasciamo che le notizie arrivino, ci invadano fin nei polmoni, tagliandoci il fiato, e poi se vadano così come sono venute. Non importa il tenore delle stesse, non importa il tema, la rilevanza per la nazione: viviamo davvero in un mondo in cui tutto è indifferente, in cui ogni cosa è uguale alle altre.
Allo scrittore spetta, dunque, l’arduo compito di essere sasso lanciato nel fiume: rompere il flusso, fermare il dibattito, portare alla luce una storia e far sì che diventi la storia di tutti.
Questo ha fatto Roberto Saviano con il suo Gomorra: ha preso le vicende di uno degli ultimi territori d’Italia e lo ha messo al centro del panorama letterario, al centro del dibattito politico. Ed ecco che la storia di quelli che prima non erano nessuno, è diventata la storia di tutti. Tutti la leggono, tutti ne parlano, tutti la conoscono. Gomorra ha significato per il nostro paese quello che Lamento di Portnoy ha significato per l’America.
Saviano ha trasformato fatti di cronaca in un’opera letteraria, che si è servita della potenza propria della letteratura per entrare in contatto con la realtà e trasformarla a sua volta. Ha rappresentato tra le pagine di un libro il male che vedeva intorno a sé, le ferite, il buio della sua terra.
È necessario, pertanto, che la letteratura si riappropri del male come oggetto di narrazione. Narrare il male non lo spettacolarizza, narrare il male lo disinnesca, lo distrugge.
Ciò che è male ed è parte della realtà va conosciuto, affrontato. Il male va raccontato, perché non ci si cura di una malattia tenendola nascosta al medico.
Bianca Marzocchi