Nelle settimane scorse la Turchia di Erdogan ha siglato nuovi accordi di cooperazione militare con Somalia e Gibuti, in risposta all’avvicinamento tra Somaliland ed Etiopia.
Non è solo il Corno d’Africa a interessare Ankara, nonostante sia diventato un’area strategica, alla ribalta anche a causa degli attacchi Houthi al traffico marittimo, tutto il continente africano ormai è diventato lo spazio per una attività geopolitica che vede al centro l’azione del paese anatolico.
Approfittando dell’uscita di scena di diversi Paesi europei dai contesti geografici in cui erano stati dominanti per decenni (si veda l’estromissione della Francia, in seguito ai colpi di stato, da Niger, Mali e Burkina Faso, per esempio), l'influenza della Turchia di Erdogan è destinata a crescere perché, come ha spiegato il suo Ministro degli Esteri, Hakan Fidan, i Paesi africani «apprezzano che la Turchia non abbia un'agenda imperialista».
Sfruttando il risentimento post-coloniale, negli anni Ankara ha messo in campo svariati programmi di cooperazione, come l’Africa Opening del 2008 e l’Africa Partnership Plan del 2013, che disegnavano un piano di intervento basato da un lato su un progetto di investimenti, presentato come aiuto alla popolazione, dall'altro sulla collaborazione militare, tutto al fine di “vendere” la Turchia come uno stato “Afro-Euroasiatico”.
Negli ultimi anni il numero delle ambasciate turche in Africa è cresciuto da 12 a 43, la compagnia di bandiera Turkish Airlines vola in 61 Paesi africani, mentre l’Agenzia per la cooperazione Tikka conta ben 22 uffici nel continente. Oltre a ciò, Ankara intensifica gli scambi commerciali, costruisce infrastrutture, come acquedotti e reti elettriche, porta armi, come gli ormai celebri droni TB2 Bayraktar (ormai quasi il 49% delle armi importante in Africa sono made in Turchia) e addestra gli eserciti e le marine di paesi come la Somalia e la Libia (guarda caso ex-colonie italiane).
Nel 2023 le aziende turche hanno completato in Africa 1.864 progetti infrastrutturali, per un valore di 85,4 miliardi di dollari e il volume degli scambi tra la Turchia e l’Africa è di quasi 50 miliardi di dollari.
L’approccio turco all’Africa non è solo armi e risorse, ma anche pedagogia e cultura: la fondazione turca Maarif conta 175 scuole in 26 Paesi africani; inoltre, sono state concesse borse di studio a 6 mila studenti, che in Turchia studiano per divenire classe dirigente dei rispettivi Paesi di provenienza, i quali sono naturalmente destinati a lavorare poi con un occhio di riguardo nei confronti della Turchia.
Insomma la Turchia ormai pervade la realtà africana in molteplici settori.
E l’Italia? Cosa può fare per rispondere a questo massiccio incremento dell'influenza turca?
Se ricordate, il 29 gennaio 2024, il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha presentato il cosiddetto Piano Mattei di fronte a una platea composita, nella quale figuravano rappresentanti di 46 paesi e di 25 leader provenienti dal continente africano, tra cui anche il Presidente dell’Unione Africana.
I pilastri principali del piano si suddividono in Istruzione, Agricoltura, Salute, Energia, Acqua e saranno finanziati con 5,5 miliardi di euro, divisi in questo modo: 2,5 miliardi dai fondi della Cooperazione allo Sviluppo e 3 miliardi dal Fondo Italiano per il Clima.
Forse questo sarà un assaggio per far capire al sultano Erdogan che non è ancora diventato il signore indiscusso del continente nero.
Alessandro Borganti