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Gli italiani in Libano sotto attacco: il futuro incerto del peacekeeping internazionale

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Attacchi ai soldati italiani e alle basi ONU in Libano: la situazione attuale


Ormai sembra quasi un'abitudine, ogni settimana fioccano decine di articoli che riportano di aggressioni ai contingenti italiano e ONU, della Missione UNIFIL, in Libano, tanto che ad alcuni pare esser diventata normalità.


Nella giornata di ieri, 4 soldati italiani sono stati feriti, al punto di dover essere ricoverati, dopo un attacco missilistico. Sono ancora in corso gli accertamenti sulla provenienza dei due missili, identificati come calibro 122, di comune utilizzo tra i miliziani terroristi di Hezbollah.


Si evince dunque che gli italiani, e i loro alleati occidentali, si trovano schiacciati da due schieramenti: da un lato, i soldati d'Israele fanno pressione e sparano sulle basi ONU con i carri armati, dall'altra parte, le formazioni terroristiche di Hamas ed Hezbollah complottano contro gli aggressori, aumentando la tensione nella regione e colpendo, più o meno volontariamente, il contingente UNIFIL.


Missione Italcon (1982-1984): Il primo intervento italiano in Libano



Guardando indietro, però, ci accorgiamo che la presenza italiana in Libano non è certo un fatto recente: la prima missione ufficiale si svolse infatti fra il 1982 e il 1984.


Nell'agosto dell'82 ha inizio l'operazione Italcon, condotta con la partecipazione di statunitensi e francesi, oltre, ovviamente, del contingente italiano. La missione aveva, oltre alle normali funzioni umanitarie, il compito di permettere ai sopravvissuti dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina di emigrare negli stati arabi confinanti a seguito della vittoria israeliana nella Prima Guerra Libanese.


Venne anche aiutato il governo libanese a riprendere la sovranità nel settore meridionale, dilaniato dal conflitto, e ad allestire una zona neutra fra i due schieramenti, così da permettere aiuti umanitari ai civili.



Verso il settembre dell'82, pochi giorni dopo la fine di Italcon 1, un nuovo attacco delle milizie obbligò il nostro contingente a tornare sul suolo mediorientale, con un organico di soldati italiani nettamente superiore a prima, sfiorando la cifra delle 8.000 unità. Ha inizio, così, un periodo difficile per i nostri soldati, vittime di imboscate e attentati ai convogli e alle basi. Nonostante il clima teso e le difficoltà delle operazioni, l'Italia conta un unico caduto del contingente Italcon 2, il soldato Filippo Montesi, marò di leva del battaglione San Marco.


Molto peggio andò a statunitensi e francesi, che nel corso dell'operazione persero rispettivamente 275 e 87 soldati. Nel marzo dell'84 l'ultimo contingente italiano rientrò in territorio nazionale, dopo una riuscita missione della durata di tre anni e terminata con una apparente pacificazione del territorio.


Operazione Mimosa: il ritorno dei soldati italiani in Libano nel 2006



Nell'agosto 2006, a causa della nuova guerra Israelo-Libanese, un secondo intervento occidentale è richiesto sul suolo mediorientale, il quale vede nuovamente protagonisti i soldati italiani.


L'operazione Mimosa '06 iniziò con una rapida evacuazione dei cittadini europei dai territori colpiti dal conflitto e venne portata a termine principalmente dalla Marina Militare, che inviò, in concomitanza con le navi francesi e greche, la portaerei Garibaldi, due navi da sbarco, la San Marco e San Giusto, la fregata Espero e la corvetta Fenice.


Garantita la sicurezza marittima e delle zone circostanti al porto di Beirut, il personale della Marina Militare iniziò un massiccio scarico di materiale sanitario e di beni di sussistenza per i civili, inclusi medicine, generi alimentari, generatori per la corrente elettrica, ambulanze e molto altro.


Dal novembre 2006 ebbe inizio anche lo sbarco di personale militare, i primi reggimenti di fanteria navale a toccare terra furono il San Marco e i Lagunari, rinomati reparti anfibio del nostro esercito.


Missione Leonte e Risoluzione ONU 1701: gli obiettivi del peacekeeping italiano



Da allora, le forze militari italiane, con la missione Leonte e una partecipazione di paesi alleati, garantiscono una serie di obiettivi fra cui il monitoraggio della cessazione di ostilità fra Libano e Israele, minacciata dal nuovo conflitto.


Altre parti del trattato per la Risoluzione ONU 1701, del 2006, includono l'assistenza alla popolazione civile e agli sfollati e il controllo della zona di confine fra i due paesi in conflitto. Le forze ONU avrebbero dovuto anche vigilare il confine fra la Blue Line e il fiume Litani e il ritiro delle forze israeliane dal territorio libanese a seguito del conflitto.


Chiaro è che queste disposizioni sono obsolete e urge, oggi più che mai, una chiara risposta ONU, sia agli attacchi di Israele contro le basi UNIFIL (più volte colpite "accidentalmente" da missili e, una volta, addirittura bersaglio diretto di un carro armato), che alla minaccia terroristica di Hezbollah, che mina ogni giorno la stabilità del paese e le sue istituzioni riconosciute.


Peacekeeping in Libano: ha ancora senso se i soldati non possono difendersi?



Se i due paesi non sono in grado di combattersi a vicenda senza colpire le missioni umanitarie, forse sarebbe il caso che l'ONU prendesse in considerazione un massiccio impiego di personale e mezzi militari, come nell'82, al fine di stabilizzare la regione ed eventualmente fare deterrenza contro i due contendenti.


La realtà, fuori dalla geopolitica, è che i nostri soldati in Libano non hanno né i mezzi né la libertà di difendersi da eventuali attacchi, e l'unica misura di difesa concessa è il rifugiarsi nei bunker quando diventano oggetto di attacchi.


Se le istituzioni non hanno intenzione di intervenire, e la politica si limita, nel migliore dei casi, a dire belle parole quando uno dei nostri soldati viene ucciso o ferito in missione, vale davvero la pena impegnarsi in qualcosa di così nobile come il mantenimento del peacekeeping internazionale?


Diego Como

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