Chi era?
Un martire della carità, come amava definirlo Papa Giovanni Paolo II, o un uomo di fede incrollabile, un sacerdote di periferia? Un uomo sempre schierato in prima fila contro ogni forma di violenza mafiosa, all’interno di un quartiere degradato, dove lui sa che solo il Vangelo può portare speranza. Questo era Don Pino Puglisi.

«Qualche cosa si può sempre fare», diceva, forse anche molto, se ciascuno di noi fa qualcosa.
La sua generosità, la sua solitudine.
Un uomo dal sorriso instancabile, umile e mite, dal coraggio innocente, che vive in un contesto inimmaginabile: via Hazon, Palermo. L’Italia è appena stata scossa dalle stragi di via d’Amelio e di Capaci, dove perdono la vita le due più raffinate intelligenze che la magistratura potesse schierare contro la mafia, e ancora dalle bombe di Milano, Firenze, Bologna e Roma. Sono gli anni di Giulio Andreotti e Salvo Lima.
L’Italia è distratta, vive senza passione… ma lui no.
Una mafia, che sembra forte e inarrestabile, la cui forza trova fondamenta nei bambini e nella loro mancata educazione. Questo Don Pino lo sa e, anzi, probabilmente è il primo a capirlo. Capisce che Cosa Nostra è una rabbiosa forza “conservatrice” che per continuare a esistere ha bisogno di bambine vendute e bambini ignoranti.
Un uomo che aveva un sogno: offrire un’opportunità di riscatto a tutti quei ragazzi. Cambiare una generazione. Don Pino ci prova e nel 1991, tra bambine obbligate a prostituirsi e ragazzini costretti a rubare, fonda il centro di accoglienza Padre Nostro, intitolandolo alla sua preghiera preferita. Un centro polivalente di accoglienza e di servizio. E badate che a Palermo per un sogno si poteva morire.
Un uomo, un prete, una minaccia al prestigio di Cosa Nostra. Un uomo lasciato solo nella sua impresa, dimenticato, anzi volontariamente ostacolato da una imprenditoria cieca e da una politica corrotta. Per l’indifferenza delle istituzioni, la chiesetta di San Gaetano non vale nulla.
Abbandonato persino dal vescovo, da una Chiesa che scappa. L’unico aiuto arriva dalle suore, che insieme a lui gestiscono il centro di recupero e aiutano le famiglie del quartiere, e dal Comitato inter condominiale, che insieme a lui combatte quotidianamente per ottenere una scuola media e un sistema di fognature. Il lavoro delle suore è difficile, insegnano tutto a questi bambini: a ringraziare, a lavarsi, a suonare il campanello, a rispettare le regole di un gioco, piuttosto che quelle dettate da scommesse clandestine o dall’eroina, e persino ad andare a scuola.
Tanti avvertimenti, tante minacce e una paura che inizia a colmare il cuore di un chiaro sentimento di morte. E poi l’agguato, l’omicidio. Sotto casa sua.
È il 1993 per una vittima dimenticata nella sua limpida bellezza.
“Padre questa è una rapina” e gli misero una mano nel borsello. “Me lo aspettavo”, disse.
E sui balconi solo aria di omertà. Nel 1997 Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, i due assassini, vengono arrestati e, in nome di quel sorriso che non sono riusciti a spegnere, iniziano a collaborare. I mandanti, i Graviano, vengono precedentemente catturati mentre cenano nel ristorante milanese Il Cacciatore.
Si convertono, finalmente.
Per i funerali di questa persona straordinaria, che provò a sottrarre i giovani alla malavita, scesero in piazza, a Brancaccio, migliaia di persone. Vent’anni dopo la beatificazione, il 25 maggio 2013.
Beato un uomo che stava insegnando a dire di no. Ma soprattutto che sapeva ascoltare. Che aveva un destino da seguire contro il peccato mafioso.
* * *
Da A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario, di Bianca Stancanelli.
Un contesto fatto di stragi:
«A Brancaccio bande di ragazzi si scatenano in un rodeo con i motorini. Qualcuno scrive sui muri viva la mafia. Nella guerra tra lo Stato e Cosa Nostra ha vinto la squadra cara al loro cuore, la mafia.», p. 65.
«Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. Sono scortati i magistrati, i poliziotti, gli immancabili politici. E i preti: i sacerdoti dell’antimafia.», p. 115.
Il coraggio:
«Bisogna prima conoscere, diceva; poi capire, infine agire.», p. 17.
«In quella torbida estate del 1993, è nel quartiere che si svolge una delle manifestazioni più belle, più intense, più limpide contro la mafia: una festa per ricordare Paolo Borsellino», p. 112.
«Ma un uomo che non ha paura, che non dimostra di avere paura, fa paura. », p. 117.
«Andate, tanto io qui ce la faccio da solo.», p.118.
«Non padre Puglisi. Ha troppa passione, troppa fede, troppo amore per gli ultimi. E sa che l’unica battaglia perduta per sempre è quella che si rinuncia a combattere.», p. 18.
«Voleva che si ponessero prima le fondamenta di una vita umana, integralmente umana, per costruire poi la vita spirituale.», p. 50.
«E che mi possono fare? Mi ammazzano», p. 106.
«Parliamone, discutiamone, vediamoci», p.109.
Il quartiere:
«Quel mancare di tutto sarà, dal primo all’ultimo giorno, l’angoscia e la passione del parroco.», p. 31.
«C’è un modo, un solo modo per conquistare lo sguardo di questa gente: opporre all’ossessione del guadagno la gratuità dei gesti, il dono senza scambio. Donare ed esserci: contro l’assenza di tutti-della politica, della società civile, del Comune, dello Stato. Semplicemente esserci.», p. 57.
«La mafiosità si nutre di tutta una cultura, e la diffonde: la cultura della illegalità. La cultura sottesa alla mafia è la svendita del valore della dignità umana.», p. 86.
«Nel 1993 si insedia nel quartiere una sorta di triumvirato cui è deputata la riscossione del pizzo. Le spese per pagare gli avvocati, assistere i detenuti e mantenere le loro famiglie s’ingigantiscono.», p.101.
Il sorriso:
«Ride spesso. E sorride sempre. È un sorriso che spesso spiazza l’interlocutore: è di divertimento? È il segno di una naturale, incontenibile gioia di vivere? È un sorriso beffardo? È ironico?», p. 12.
«Per piccoli segni si annunciano grandi cambiamenti», p. 104.
Gli avvertimenti:
«Brancaccio è piena di roghi in quei giorni. Saracinesche di negozi e portoni danneggiati. Abbruciamenti misteriosi.», p. 100.
«È un’estate di agguati e di presagi, di minacce, di segni cupi», p. 110.
«Non tollerava le ingiustizie, i soprusi, l’inganno: la mafiosità. Io credo che avesse capito fino in fondo il rischio che correva.», p. 113.
«Nessuno parla chiaro a Brancaccio. Si mormora. Penso che Padre Puglisi sapesse di questo molto più di noi. Avvertiva che c’era qualcosa di losco ma andava avanti. Non aveva paura di niente.», p.103.
«Paura per quel parroco troppo esposto, per quelle parole troppo chiare nella terra dei sussurri», p. 109.
«Capisce che lentamente, inesorabilmente sta camminando verso il centro del mirino. Sente che Cosa Nostra gli sta facendo il vuoto intorno, che sta costruendo la scena ideale per un’esecuzione. Lo dice.», p. 120.
La Chiesa: «Padre Puglisi, invece, avviò una riflessione sul ruolo specifico della chiesa, cominciando a distinguere tra la mafia, struttura di peccato, e il peccatore, il singolo mafioso: la struttura di peccato, sosteneva, va condannata, ma il peccatore deve essere recuperato.», p. 95.
La politica e l’imprenditoria: «Padre Puglisi non ama la politica. Dice con franchezza di essere allergico ai partiti: a qualunque partito e a qualunque uomo politico.», p. 54.
«È una dittatura militare che controlla l’economia, la vita civile e naturalmente la politica», p.77.
I bambini:
«E pensa che da lì bisogna partire: dai bambini. Perché dai bambini comincia il mondo, la vita. E in ogni bambino il mondo ricomincia.», p. 23.
«Era convinto che ai bambini, ai ragazzi bisognava mostrare un mondo diverso, offrire un’alternativa: dar loro la possibilità di scegliere, la libertà di scegliere. I bambini erano distrutti dentro e volevano distruggere.», p. 49.
La libertà:
«Aveva molta personalità. Nel vangelo è scritto: la verità vi farà liberi. Lui l’ha testimoniato fino alla morte», p. 88.
«Dei molti modi di fare l’antimafia aveva scelto il più arduo, il meno appariscente, e forse l’unico utile: capire. Le vittime di quegli anni avevano un potere: leggi o manette o ancora inchieste giornalistiche. Padre Puglisi può solo parlare. E non gli viene perdonato.», p. 146.
«Perché uccidere il Parroco di Brancaccio? Il terrore di perdere il consenso, la paura di vedersi sottrarre i ragazzi, i bambini.», p. 132.
«Padre Puglisi rompeva troppo le scatole, chiamava dei giovani anche … e faceva l’antimafia.», p. 137.
«Rimase solo. Noi, ci teneva fuori.», p. 115.
L’ importanza delle amicizie:
«Ma in silenzio Padre Puglisi è andato incontro alla morte. Perché? Racconta Gregorio Porcaro che in un giorno d’estate Padre Puglisi aveva voluto passeggiare con lui. Serio gli aveva domandato “Gregorio, resterai tu a Brancaccio se io non dovessi esserci?” il Parroco, dunque gli aveva chiesto: “se dovessi morire, se dovessero uccidermi, avrai il coraggio di restare?”», p. 124.
La morte:
«Il 15 settembre era il giorno della sua nascita. Cinquantasei anni dopo sarà il giorno della sua morte. C’è in questo l’immagine di un destino.», p.125.
«Restivo avverte la questura, qualcun altro ha chiamato l’ambulanza. Molto ci dice dell’epoca, dei luoghi, di Palermo, che non si sia mai saputo chi abbai urlato, né chi abbia chiamato l’ambulanza. Nessuno ha sentito sparare, nessuno ha visto macchine fuggire.», p. 130.
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Era un uomo libero, che camminava a testa alta. Nel 1993 per caso, per scelta, per un destino, padre Puglisi si trovava a presidiare la sguarnita frontiera di Brancaccio, snodo chiave della geografia di mafia. E lì con passione e forse incoscienza si prendeva i bambini, il domani.
Oggi la vita quotidiana a Brancaccio non è cambiata: i negozi pagano sempre il pizzo e i vecchi affari sporchi si svolgono con indisturbata tranquillità ma forse il passaggio di questo santo, martire o eroe non è stato invano!

Amirah Risoli