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A cercar la bella morte, un romanzo per quei ragazzi in camicia nera

Aggiornamento: 6 giorni fa

Victrix causa diis placuit, sed victa Catoni

 

La causa vincitrice piacque agli dei,

quella vinta a Catone


 

L'onore dei vinti nella Letteratura Occidentale


Con questo verso il poeta Lucano presenta la figura di Catone Uticense, suicida per non consegnarsi a Cesare, nel suo poema sulla Guerra Civile che, sotto la patina della narrazione ufficiale, celebra i grandi sconfitti, come Pompeo e, appunto, Catone, che la storiografia imperiale aveva messo da parte, per esaltare il mito di Cesare.

 

La storia è spesso scritta dai vincitori, mentre gli sconfitti devono confidare in qualcuno che, sotto la copertura dell’opera letteraria, sappia tramandare il ricordo del loro punto di vista.

 

La stessa Letteratura Occidentale ha come primo libro l’Iliade, che, se vogliamo ben vedere, è un grande poema dedicato agli sconfitti e in particolare alla figura di Ettore, destinato a essere ucciso da Achille, in uno scontro impari e scontato, da cui però il troiano non si sottrae, preferendo fare il proprio dovere fino in fondo.

 

Venendo a un’epoca più recente, è interessante il caso degli USA, dove la celebrazione della figura di Abramo Lincoln domina la narrativa politica e storica, mentre spetta al romanzo di Margaret Mitchell, Via col Vento, custodire il ricordo della causa confederata.

 

Un unicum nella letteratura italiana contemporanea: “A cercar la bella morte”


Ma esiste qualcosa di simile anche per quella che è stata la guerra civile che ha insanguinato il nostro paese tra il 1943 e il 1945? Intendo un’opera letteraria, non opere reducistiche di stampo memorialistico, ma qualcosa di diverso.

 

Una bellissima sorpresa è stata per me la scoperta di A cercar la bella morte, di Carlo Mazzantini, un breve saggio autobiografico a cui il docente di letteratura italiana a Galway affida una confessione che, fino ad allora, aveva sempre omesso: lo stimato professore aveva fatto la guerra sì, ma dalla “parte sbagliata”.

 

Il suo, come dicevamo, non è un testo storico, e chi lo leggesse in cerca di informazioni militari ne risulterebbe deluso, ma una riflessione su quello che ha animato lui e tantissimi giovani che in quei giorni fecero una determinata scelta.

 

La narrazione è stilisticamente ricercata e non segue l’ordine cronologico, preferendo focalizzarsi sui momenti più rilevanti a livello emotivo:  l’entusiasmo con cui nell’estate del ‘43 scappa da casa, a soli 18 anni, per arruolarsi nelle Camicie Nere della Legione Tagliamento; la disillusione durante le prime operazioni anti-partigiane in Valsesia; la primavera del ‘45 a Milano, quando, stanco e deluso, si rassegna ad andare incontro a quel destino che riteneva inevitabile, aspettando le colonne dei liberatori in una città spettrale, e infine il dopo guerra, con la difficoltà ad inserirsi e a trovare lo spazio in un mondo nuovo e ostile.

 

Questo è il tema su cui si sviluppa tutto il libro: un gruppo di giovanissimi che, vedendo sgretolarsi  tutto ciò in cui avevano creduto, sceglie e decide di perire con esso, per una causa disperata che, come è chiaro fin da subito, è destinata alla sconfitta.

 

Ma cosa succede quando questa sconfitta si realizza? Alcuni sono imprigionati e uccisi, altri, non si rassegnano e rifiutano la resa e, dopo aver indossato l’uniforme, si tolgono la vita, altri provano a inserirsi nel nuovo mondo, ma sentendosi sempre degli estranei; altri ancora, come l’autore, decidono di rompere totalmente con il passato e si rifugiano all’estero, dedicandosi allo studio della letteratura e all’insegnamento universitario.


I ricordi soppressi e il ritorno del passato

 

Ma il passato è sempre pronto a riemergere e questo avviene quando, trent’anni dopo, nella sua Università una redattrice di Storia Moderna comincia a raccontare delle ricerche che ha fatto proprio in Valsesia, incontrando e intervistando quelli che erano stati i partigiani:

 

«Poi ci hanno portato in un posto, qualcosa come un ponte o un cavalcavia, dove avevano sterminato un plotone di fascisti». Raccontava, dava particolari: i feriti che erano stati finiti a colpi di pistola o con i loro stessi pugnali, il camion incendiato.

«Aspetta come si chiamava?… Ah sì ecco, il Ponte della Pietà!»

«è un cavalcavia di cemento che traversa la strada fra Quarona e Roccapietra...» mi erano venute fuori quasi senza accorgermene quelle parole, e il suono della mia voce mi aveva sorpreso.

«Sì proprio quello, proprio lì… si chiamava a quel modo» Ma poi con la stessa rapidità, resta interdetta, torna indietro, ci ripensa, mi guarda incuriosita, sorpresa «ma tu come lo sai?»

 

Già, come lo so? Come potrebbe sospettare lei che io sono “uno di quelli”? Che su quel camion che bruciava in quella notte terribile avrei potuto esserci io? Che io, questo collega che ha condiviso la loro stanza, i loro discorsi per tanti anni, di cui conoscono la moglie, le figlie, con cui hanno scherzato, era una di quelle figure nere ritagliate sullo sfondo atroce di quei tempi remoti?

 

Mi chiedevo, in quel turbamento: e se ora la interrompessi e le dicessi “io ero là. Ero uno di quelli” che reazioni avrebbero avuto? “tu? Ma che ti salta in mente? Che dici?”

Se le avessi detto che quel piccolo siciliano che ardeva “come una torcia umana” su quel camion io lo conoscevo? Avrei potuto dire loro il nome, come parlava, come rideva.

 

… Se fossi riuscito a strappare quelle ombre, quei fantasmi lontani della genericità delle sue parole, dalla astrazione e dalla condanna contenuta in quella parola, “i fascisti”, e fossi stato in grado di restituire loro fattezze di persone, le loro facce di ragazzi, i loro sorrisi, le ingenue fole, i gesti che compivano, che reazioni avrebbero avuto? 

 

La letteratura come voce degli sconfitti


Questa è forse una delle tematiche più forti del libro: restituire le fattezze anche agli sconfitti, soppressi dalla narrazione storica influenzata dall’ideologia politica:

 

...La notte in cui eravamo partiti, Giulio aveva detto: «un giorno ci sarà una pagina di storia per noi. I ragazzi di scuola leggeranno che quando tutto sembrò finito ci furono venti giovani...» Era così che la immaginavamo la storia, come ci era stata insegnata e si era sempre svolta: una cosa chiara, che avrebbe avuto la conclusione di sempre come l’avevamo imparata appunto anche noi sui banchi di scuola. E invece eravamo rimasti là sulla pagina cancellata, senza voce, bollati per sempre d’infamia, coinvolti in un groviglio di odi e passioni..

 

Compito della letteratura deve essere anche questo: restituire la voce anche agli sconfitti, non più considerati un simbolo maledetto, i responsabili di tutto, i capri espiatori su cui scaricare odi, vendette, rimorsi ma come persone che, in quegli anni crudeli, hanno compiuto la loro scelta disperata.

 

Andrea Campiglio

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