Una Repubblica fondata sul furto (dei Gioielli di Casa Savoia)
- Matteo Respinti
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Esproprio democratico e costituzionale
L'Italia è una Repubblica fondata sul furto, lo spiega bene l'infame 13° disposizione transitoria della Costituzione:
«I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale.
I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli».
C'è un primo furto, che potremmo definire più generale, ovvero quello che, il 2 giugno 1946, per mezzo di un referendum democratico, benedetto da quella Democrazia Cristiana che per fede avrebbe dovuto servire i Re di Gerusalemme, e che qualcuno dice anche truccato - furto nel furto - sottrae la Nazione ai suoi legittimi custodi, la Casa reale di Savoia.
Ve ne è poi un secondo, che torna oggi alla cronaca, ovvero l'esproprio democratico dei beni della Casa Reale. Una sorta di contrappasso, potremmo dire, seguendo Dante, se pensassimo all'operato del Conte di Cavour nei confronti delle proprietà della Chiesa, al tempo dell'unificazione del Regno. Comunque sia, un esproprio ingiusto, condotto secondo la ratio rivoluzionaria dell'odio dei migliori e non certo per spirito di restaurazione.
Il caso dei gioielli: una confisca mai chiarita
Ad ogni modo, il furto fu imperfetto e oggi l'indegno rampollo, già mai erede, della casa reale esige la restituzione dei "gioielli dei Savoia".
Perché ne avrebbe facoltà? Se la confisca dei beni immobili fu immediata, il 5 giugno del '46 il presidente del Consiglio (il democristiano Alcide De Gasperi), chiese a re Umberto II di consegnare i gioielli della corona. Quindi, il Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, presi i gioielli in consegna li cedette all’allora governatore della Banca d’Italia, il futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Da quel momento i gioielli sono protetti da 11 sigilli, "custoditi" nella sede della Banca d’Italia in via Nazionale, a Roma. Ma che ciò corrisponda a una confisca da parte dello stato repubblicano, e quindi a un passaggio di proprietà, non era, finora una questione determinata.
Il verbale che testimonia la consegna recita che i gioielli devono essere conservati e «tenuti a disposizione di chi di diritto».
La causa di Casa Savoia, il ricorso e la sentenza
Su questa base, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice di Savoia, chiesta e vista respinta, nel 2021, la restituzione da Banca d’Italia, nel 2022 hanno intentato una causa civile; sostenendo formalmente che i gioielli erano acquisti diretti, o comunque regali destinati all'uso della famiglia reale, quindi beni personali, e non "effetti in dotazione" per l'adempimento delle proprie funzioni, come affermato nello Statuto Albertino.
Pochi giorni fa, il tribunale di Roma ha respinto il ricorso, impedendo a Casa Savoia anche la facoltà di sollevare una questione di legittimità costituzionale, che avrebbe potuto condurre il caso all'attenzione della Corte costituzionale o della Corte di Giustizia europea.
Secondo l'unica catalogazione del 1976, il cofanetto conterrebbe 6.732 brillanti e 2.000 perle, per un totale di quasi 2mila carati. Valutati intorno ai 2 miliardi di lire, 10 milioni di euro, che, secondo alcune stime, oggi, se venduti all'asta potrebbero valere fino a 300 milioni di euro.
Spicci, per uno Stato che ha speso 30 miliardi solo nell'ultima o, se preferite, che ha buttato per il super bonus (tra il 2021 e il 2023) 170 miliardi di euro. Ma, in un certo senso, spicci anche per una famiglia, quella Savoia, il cui patrimonio, nel 2024, ammontava a 1,5 milioni di euro. Certo, lo scarto con il valore dei gioielli è lapalissiano, ma non credo che a quei livelli qualcosa possa effettivamente cambiare.
Ad ogni modo, 300 milioni di euro - forse - di gioielli, spicci per uno Stato neppure intenzionato a impiegarli, sepolti in un caveau della Banca d'Italia, a far la polvere, per presidiare la democratica volontà del popolo italiano...
Matteo Respinti
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