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Geppino Micheletti: l'eroe della Strage di Vergarolla che l'Italia ha dimenticato

Nella strage di Vergarolla, 1946, il dottor Geppino Micheletti perse figli, fratello e cognata, eppure scelse di non fermarsi: per 24 ore continuò a operare e curare la sua gente, imostrando un coraggio e un senso del dovere straordinari. Questa è la storia di un esempio di umanità che oggi abbiamo quasi dimenticato.


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Pola, 18 agosto 1946. Sulla spiaggia di Vergarolla, un’esplosione spezzò il tempo, la pace e decine di vite. Fu una delle stragi più gravi del dopoguerra italiano, ma anche una delle più taciute. Quel giorno, su quel lembo di costa istriana, si consumò una tragedia che ancora oggi non ha avuto giustizia, né pieno riconoscimento storico.


Era una domenica di sole a Pola e sulla spiaggia di Vergarolla si erano radunate circa duemila persone, tra famiglie, bambini e sportivi, per assistere alle tradizionali gare natatorie della Coppa Scarioni, organizzate dalla società Pietas Julia, per celebrare i sessant’anni dalla sua fondazione.


L’evento, promosso anche dal quotidiano L’Arena di Pola, come manifestazione di italianità, voleva simbolicamente riaffermare il legame di Pola con l’Italia, in un contesto segnato dalla guerra e dalle tensioni con le ambizioni jugoslave.


Improvvisamente, non lontano dalla riva, esplosero 28 mine antisbarco, residui bellici ritenuti inerti, trasformando la giornata di festa in una tragedia. Una deflagrazione terrificante. Le cronache parlano di corpi dilaniati, urla, silenzio.


Le autorità, Jugoslave, parlarono, invece di “sventura”, come se si fosse trattato di un "incidente naturale". Già nelle ore immediatamente successive ai fatti c’era chi sussurrava che si trattasse di un vero e proprio attentato, forse addirittura da attribuire alla mano invisibile della polizia segreta di Tito.


A pagare il prezzo più alto fu la popolazione civile italiana. E tra le storie di quel giorno, una emerge per la sua disarmante dolorosa e umanità, quella del dottor Geppino Micheletti.


Nato a Trieste nel 1905, Micheletti era figlio di un ebreo e di una cattolica. Chirurgo affermato, si era trasferito a Pola da ragazzo, dove aveva costruito la sua vita e la sua carriera.


A Pola aveva sposato Jolanda Nardin e lì erano nati i suoi due figli: Carlo, nel 1937, e Renzo, nel 1942. Le leggi razziali del 1938 avevano ostacolato la sua carriera: a causa delle sue origini ebraiche gli era stata preclusa ogni possibilità di avanzamento professionale, spingendolo a farsi battezzare.


Ma nulla lo aveva piegato. Aveva continuato a lavorare, anche durante la guerra, anche durante l’occupazione jugoslava. Era rimasto a Pola mentre tutto intorno a lui crollava.


Quel 18 agosto 1946, Micheletti era di turno. L’esplosione lo colse mentre pranzava a casa. Udito il boato, corse all’ospedale “Santorio Santorio”. Si mise subito all’opera: prestava soccorso, operava senza sosta, ricucendo corpi martoriati nel tentativo disperato di salvare vite. Ma dentro di sé tremava. Sapeva che i suoi figli erano a Vergarolla, con il fratello e la cognata.


Fu durante un intervento chirurgico che gli diedero la notizia. Renzo, sei anni, era stato polverizzato. Di lui era rimasta solo una scarpetta. Carlo, nove anni, era stato trovato morto. Anche suo fratello Alberto e la cognata erano tra le vittime.


Micheletti vacillò. Si accasciò, forse su una sedia, forse sul pavimento. Ma poi si rialzò. Tornò al tavolo operatorio. Continuò a operare, instancabile, per 24 ore. Quando gli chiesero di fermarsi, disse soltanto: “Adesso bisogna pensare ai vivi”.


È difficile immaginare una forma di eroismo più silenziosa e più straziante. Geppino Micheletti non cercò vendetta. Scelse la medicina, ancora, come risposta al dolore. E poi, decise di andarsene.


Quando gli domandarono perché se ne andava proprio ora, Micheletti rispose con parole che ancora oggi feriscono, per la loro limpidezza: “Non voglio curare un giorno gli assassini dei miei figli”.


Lasciò Pola nel marzo del 1947, durante l’esodo degli italiani d’Istria, dopo il Trattato di Pace che assegnava la città alla Jugoslavia. Fu tra gli ultimi a partire, dopo aver coordinato, con la Croce Rossa, l’evacuazione dei malati. Con la moglie si stabilì a Narni, in Umbria, dove lavorò come chirurgo per 14 anni, fino alla morte, avvenuta nel 1961 per un’embolia postoperatoria.

Ma il dolore non lo abbandonò mai. A Narni, la cameretta di Carlo e Renzo venne ricostruita com’era a Pola. E nel taschino del suo camice, ogni giorno, Geppino portava con sé un piccolo calzino appartenuto a uno dei suoi figli. Le suore dell’ospedale lo sapevano: ogni volta che gli davano un camice pulito, si assicuravano che quel calzino fosse al suo posto.

Per il suo comportamento eroico gli fu conferita la Medaglia d’Argento al Valor Civile. Nella motivazione si legge: “Soffocando, in un estremo sentimento di attaccamento al dovere, il suo immenso dolore, non esitava a prodigarsi con sublime forza di animo, in soccorso degli infortunati [...] Ammirevole esempio di abnegazione e di alto senso del dovere”.


Oggi, Vergarolla è quasi dimenticata. Un cippo nella città vecchia di Pola ricorda la strage.


Una targa onora la memoria di Micheletti, definito “cittadino benemerito”. Ma il suo nome resta ai margini della memoria collettiva. Eppure, la sua storia merita di essere ricordata. Non solo come cronaca di una tragedia, ma come testimonianza di un’umanità capace di resistere al dolore con dignità e silenzioso coraggio.


Geppino Micheletti non fu solo un medico. Fu un padre ferito, un uomo spezzato, ma soprattutto un esempio luminoso di cosa significhi servire la propria comunità, anche quando tutto sembra perduto.

Federica Borsi

 
 
 

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