Paolo Borsellino: verità, amore e libertà
- Amirah Risoli

- 19 lug
- Tempo di lettura: 3 min
Un viaggio ispirtato dal libro Per amore della verità, di Piero Melati
Verità negata: trent’anni di silenzi e depistaggi
La verità è come l’aria: è respiro fresco, vento che accarezza, amore che trova il coraggio di mostrarsi. È realtà che domanda di essere guardata con occhi pieni di stupore, curiosità e passione. È autenticità, è gioia di vivere. È giustizia.
Questo è ciò che la famiglia del giudice Paolo Borsellino ha cercato per trent’anni. Trent’anni di speranza, di dolore, di attesa. Un lungo iter processuale, segnato da omissioni, negligenze, gravi lacune. Un diritto alla verità negato, e non solo alla famiglia, ma a tutti noi. Un depistaggio ignobile, divenuto simbolo di una delle pagine più oscure della nostra storia giudiziaria.
Emblema di questa oscurità è l’agenda rossa del giudice Borsellino, sparita il giorno della strage. Come scrive Piero Melati, quell’agenda è il simbolo di un Paese che la verità non riesce ad averla, o forse non la vuole. Segreti di Stato, verbali scomparsi, un gioco di ombre. La stessa indagine sulla strage si rivelerà una messinscena.
Memorabile è la costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino, orchestrata da Arnaldo La Barbera, poi smentito da Gaspare Spatuzza. Sarà proprio La Barbera a restituire la borsa del giudice, senza però l’agenda. Chi la prese? A chi fu passata? Perché fu riportata?
Abbiamo solo una fotografia: uno scatto di Franco Lannino che ritrae un uomo con un distintivo istituzionale allontanarsi dalle macerie di via D’Amelio con una borsa in mano.
Nulla è chiuso. Il caso, forse, deve ancora cominciare. Documenti decisivi sono stati stralciati per salvare la faccia a due processi-farsa. Le piste giuste sono state ignorate per proteggere i veri mandanti. Questa è la verità.
Stato, mafia e giustizia deviata
Dopo la strage, il procuratore capo di Palermo Giammanco è costretto alle dimissioni. Le indagini vengono affidate ai Servizi. Perché? Melati parla di “buchi neri” nella giustizia, di un percorso interrotto, deviato. “Una strage che tutti sapevano si sarebbe consumata e su cui si è truccato tutto”, scrive.
Oggi si parla ancora di affaire Borsellino, a indicare il groviglio di inchieste, interrogativi e depistaggi legati alla strage di via D’Amelio: responsabilità mancate, pentiti manipolati, collusioni tra mafia e Stato. Simbolo di tutto ciò fu anche l’inchiesta Mafia-Appalti del ROS.
E la famiglia? Di loro si parla troppo poco.
“Molti avevano interesse che Agnese e i figli non turbassero il depistaggio che si stava costruendo. Li tenevano sotto controllo”, spiega Melati. Eppure, quei figli hanno custodito l’anima del padre. “Aveva un’arte nel tenere unita la famiglia, e ci ha lasciato uniti anche senza di lui. Lo faceva naturalmente, perché ci credeva. Per questo abbiamo scelto la vita”.
Il testamento morale di Paolo Borsellino
Borsellino credeva che solo passando attraverso la verità si potesse arrivare alla libertà. Ed è in nome di quella libertà che le idee prendono forza. Come nel caso del pool antimafia, nato dal sogno del giudice Rocco Chinnici: “si guardava, si andava nei luoghi, si verificava ciò che era sempre stato sotto gli occhi di tutti”.
“Oggi noi dimentichiamo”, dice la figlia Lucia, “mentre papà era famoso per non dimenticare nulla: un volto, un dettaglio, un episodio”. Carismatico, affascinante, guidato da una passione che partiva dall’amore. “Voleva cambiare la Sicilia, perché diceva che l’amore è cambiare ciò che non ci piace”.
La sua arma era il sorriso. “Ce lo ricordiamo tutti, quel sorriso. I mafiosi, i pentiti, i colleghi. Aperto, divertito, pieno di energia. Le sue parole erano bellezza e amore. Anche nei momenti più difficili. E non smetteva mai di sorridere”.
Lucia lo ricorda anche con affetto e ironia: “Papà mi chiamava margherita bullonata: margherita per la dolcezza, bullonata per la tostaggine”.
Una vita breve, ma intensa. Una quotidianità fatta di leggerezza e preoccupazione, di paura e coraggio. “Papà sdrammatizzava con un sorriso. Dissacrante, ma sempre esempio concreto. Alle parole anteponeva i fatti”.
E c’era quell’amicizia, unica, con Giovanni Falcone. Legame indissolubile, tenuto insieme da ironia e rispetto. Falcone lo chiamava “camerata”, per scherzo. Ma certe cose, forse, erano destino.
Un destino che lo portava a guardare sempre il lato umano, anche nei peggiori. “Molti interrogatori diventavano colloqui. La sua era un’idea di giustizia più umana. Portava personalmente in carcere beni di prima necessità ai pentiti. Vedeva il male, ma vedeva anche l’umano”, scrive ancora Melati.
Tanti volti, tanti misteri, tanti segreti si nascondono ancora dietro allegorie e silenzi. Tanti rami spezzati. Tanti sguardi segnati dalla malinconia. E oggi, come Melati, anche io mi chiedo: quei grandi processi, quelli ai pezzi da novanta o alla trattativa Stato-mafia, hanno davvero imboccato le strade giuste?
E l’antimafia… è ancora un ideale o è diventata un trampolino per fare carriera?
Speriamo di no.
Amirah Risoli






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