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L’Impresa di Fiume: il poema armato del Vate

Certe date, nella storia di una Nazione, si imprimono come un fuoco nella memoria collettiva. O almeno dovrebbero. Il 12 settembre 1919 è una di queste.


All’alba, lungo la strada costiera verso l’Istria, un manipolo di coraggiosi legionari guidati da Gabriele D’Annunzio marcia compatto, tra cori e canti, verso la città di Fiume, contesa tra Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.


È l’inizio di un’impresa, l’occupazione di una città italiana in terra straniera, Fiume, la più poetica delle insurrezioni, condotta dal più elegante dei rivoluzionari; un atto che sfidò la diplomazia dei governi socialdemocratici e si rivolse direttamente al cuore del Popolo e della Nazione.


Il contesto che "prepara" l'impresa di Fiume


L’Italia è uscita vittoriosa dalla Grande Guerra, ma ha sofferto un numero di perdite altissimo e si trova immersa nella cosiddetta “vittoria mutilata”. A Versailles e a Parigi, le potenze vincitrici negano a Roma parte delle terre promesse nel Patto di Londra. Fiume, città di lingua e cultura italiana, non è compresa nei confini riconosciuti all’Italia, ma in quelli del neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.


Il governo Nitti, incalzato dalla crisi economica e sociale, si muove con cautela, e, preferendo la diplomazia alla spinta interventista che ardeva nelle piazze, si sottomette alle potenze straniere.


Ma per D’Annunzio, che aveva già definito la pace del 1919 «una vergogna siglata nelle cancellerie», il temporeggiare equivaleva a un tradimento nei confronti degli stessi fiumani, italiani a tutti gli effetti.


Gabriele D'Annunzio: l’uomo e il mito


D’Annunzio non fu un uomo qualunque: era il Vate, il poeta che aveva saputo trasformare la parola in arma. Prima della guerra, la sua fama era già vasta: romanziere, drammaturgo, simbolo di un’estetica decadente ma raffinata.


Il conflitto mondiale, però, lo trasforma: diventa guerriero, aviatore, ardito tra gli arditi. Tre episodi ne fissano la leggenda: il volo su Trieste il 7 agosto del 1915, poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia, quando sorvola la città irredenta lanciando manifesti patriottici.


La Beffa di Buccari, avvenuta nella notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1918, quando a bordo della celebre MAS96 e con altri 2 motoscafi, lanciarono bottiglie tricolori con motti ironici nella baia austriaca, risollevando il morale delle truppe italiane dopo Caporetto.


E infine, il volo su Vienna, il 9 agosto 1918, impresa audacissima, condotta a bordo di un biplano, in pieno territorio nemico, per lanciare migliaia di volantini tricolori sulla capitale austriaca.


Per l’Italia interventista, queste azioni sono poesia d’acciaio. Egli stesso scrive: «ho fatto della mia vita un’opera d’arte e della mia arte un’arma di guerra». La sua estetica è chiara: la rivoluzione, per essere efficace, deve essere bella. Non nel senso frivolo, ma come armonia di gesto, parola e simbolo.


È per questo che nell’Impresa di Fiume nulla è lasciato al caso: dai labari ai discorsi, dalle uniformi alle cerimonie, tutto finalizzato a imprimere l’impresa nel cuore degli arditi.


La marcia su Fiume


L’azione prende forma nel settembre 1919. Mentre il governo ordina l’evacuazione delle truppe italiane da Fiume, d’Annunzio raccoglie volontari: ufficiali, soldati scontenti, futuristi, nazionalisti, reduci senza patria.


Sono circa 2500 Legionari, il cui motto è «O Fiume o morte!», pronti a seguire il Vate, anche contro gli ordini di Roma. La partenza da Ronchi è un atto di sfida: i reparti incaricati di fermarlo esitano, poi si uniscono a lui. Lo stesso comandante della guarnigione di Fiume, il generale Ceccherini, non oppone resistenza.


Il 12 settembre, D’Annunzio entra in città, con ormai 8000 Legionari al proprio seguito, accolto da una folla in delirio, e dal balcone del Palazzo del Governo pronuncia queste parole:


«Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione... Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, credo di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d'Italia proclamando l'annessione di Fiume.»


L’opinione pubblica


La stampa italiana si divide. I giornali nazionalisti e interventisti esaltano il gesto come rivincita morale, contro le umiliazioni diplomatiche. Alcuni liberali vedono in D’Annunzio un pericoloso agitatore, un “poeta matto”, che rischia di compromettere la posizione dell’Italia.


I socialisti, nel pieno del Biennio Rosso, bollano l’impresa come “avventura reazionaria”, al servizio del militarismo. Il governo Nitti, imbarazzato, teme uno scontro con gli Alleati e, soprattutto, con la neonata Jugoslavia. Roma invia note di protesta e tenta di isolare il Vate.


Ma l’entusiasmo popolare complica ogni azione repressiva: i Legionari sono celebrati nei caffè, nei circoli patriottici, perfino in certe piazze operaie, dove si apprezza la sfida al potere centrale.


Anche all’estero, la vicenda suscita curiosità. Alcuni giornali francesi e britannici parlano di “colpo di testa poetico”, mentre negli ambienti diplomatici prevale l’irritazione: l’impresa minaccia la fragile architettura della pace di Versailles.


La Reggenza del Carnaro


D’Annunzio non si limita a occupare la città. Con Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario, elabora la Carta del Carnaro, una costituzione modernissima che mescola corporativismo, giustizia sociale e nazionalismo, con cui istituisce ufficialmente la Reggenza del Carnaro.


La Carta si fonda principalmente sul lavoro e prevede corporazioni per ogni mestiere (compresi poeti e artisti), che rappresentavano i lavoratori, votati con un suffragio universale; sanciva, inoltre, una forte autonomia comunale, il diritto a un salario minimo e cure mediche gratuite e l’abolizione della proprietà privata intesa in senso capitalista.


A Fiume, la rivoluzione porta spettacolo e bellezza. Gli ufficiali portano uniformi ornate, i legionari cantano inni scritti da poeti, le adunate sono studiate come uno spettacolo teatrale.


Non c’è qui il disordine del sovvertimento proletario, né la fredda burocrazia del parlamentarismo. C’è un’idea di bellezza armata, di una Nazione come opera corale, un Popolo in armi, unito da un profondo ideale patriottico.


Il tramonto dell’Impresa di Fiume


Ma l’utopia non può durare indefinitamente. Dopo oltre un anno di resistenza, il governo Giolitti decide di chiudere la questione con la forza. Già nel novembre del 1920, era stato firmato il Trattato di Rapallo, tra l’Italia e il Regno Jugoslavo, in cui veniva creato lo Stato Libero di Fiume e disconosciuta la Reggenza del Canaro. Così nel dicembre dello stesso anno, la Regia Marina bombardò Fiume, durante il cosiddetto “Natale di sangue”: i Legionari vengono dispersi e D’Annunzio, ferito lievemente, lascia la città.


Il capolavoro del Vate


L’Impresa di Fiume ha lasciato un’eredità potente e singolare nel suo genere. Alcune sue forme, come la ritualità, l’uso di simboli, la fusione di politica e spettacolo, saranno riprese dal fascismo nascente.


D’Annunzio, dal canto suo, si ritirò sul Garda, al Vittoriale degli Italiani, trasformando la propria dimora in monumento a sé stesso e alla sua visione estetica della vita. Lì continuerà a proclamarsi «poeta-soldato» e a difendere l’idea che l’arte possa essere un’arma molto più potente del fucile.


L’Impresa di Fiume rimane, a più di un secolo di distanza, un atto irriducibile alle categorie della politica moderna. Fu un’unione tra il classico colpo di mano, di D’Annunzio, e un’utopia estetizzante, che ancora oggi suscita un’ammirazione eroica.


E D’Annunzio stesso, ci spiega il senso ultimo del suo gesto: «Io non ho conquistato Fiume: l’ho cantata. E i miei soldati non hanno vinto una battaglia: hanno scritto un poema.»


Ed è quel poema che oggi ogni rivoluzionario deve impugnare e continuare a scrivere con lo stesso coraggio e la stessa arditezza che mossero il Vate nel suo ultimo capolavoro. Un’opera d’arte che ha passato alle generazioni future, un capolavoro che resterà sempre incompiuto, ma immortale.


Alessandro Campedelli

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