Evita Perón: eroina sociale e fiamma dell'Argentina
- Giacomo Cenesi
- 26 lug
- Tempo di lettura: 6 min

In un’epoca in cui la politica sembra oscillare tra l’aridità tecnocratica e le derive globaliste, la figura di Eva Perón, o più semplicemente Evita, risuona ancora con una potenza simbolica che attraversa i decenni e le ideologie.
Molti la ricordano per la sua breve ma intensa parabola pubblica, per il suo stile iconico, o per le controversie che da sempre accompagnano il suo nome. Ma, per chi si riconosce nei valori della Destra Sociale, Evita rappresenta qualcosa di più: un esempio concreto di sintesi tra identità nazionale e rivoluzione sociale, tra il popolo e lo Stato, tra autorità e carità.
Evita Perón non fu semplicemente la “moglie del Presidente” o un'icona pop, ma una protagonista della vita politica argentina, promotrice di una visione sociale e nazionale, profondamente radicata nell’anima del popolo. Una figura che, pur nei suoi limiti storici, può ispirare ancora oggi chi crede nella costruzione di un ordine sociale giusto, fondato sull’identità, la solidarietà e il senso del destino collettivo.
Le origini: la fame, la provincia, l'incontro con Peron
Evita nasce il 7 maggio 1919 a Los Toldos, un piccolo villaggio della provincia argentina. Figlia illegittima, cresciuta nella povertà rurale, conosce fin da bambina l’ingiustizia sociale e il disprezzo delle élite cittadine per chi proviene dalla "campagna profonda". Non è un dettaglio secondario: Evita non parlerà mai da intellettuale borghese, non si presenterà mai come “esperta”, ma sempre come "una del popolo", consapevole delle sofferenze, delle ingiustizie e delle speranze della gente comune.
È proprio questa origine umile e fiera che plasmerà la sua visione del mondo: non una rivendicazione di classe in senso marxista, ma una rivolta morale e spirituale contro l’indifferenza e la disumanizzazione di un sistema che aveva tradito la nazione e i suoi figli più poveri.
Il punto di svolta arriva nel 1944, quando incontra Juan Domingo Perón, allora Segretario del Lavoro in un governo militare. L’intesa è immediata, non solo sentimentale ma soprattutto ideologica. Evita intuisce che Perón rappresenta un’alternativa reale all’oligarchia liberale, ai partiti settari, al dominio straniero. Lo sostiene pubblicamente, lo accompagna nei comizi, lo difende quando viene imprigionato.
Il 17 ottobre 1945, giorno in cui il popolo scende in piazza per chiedere la liberazione di Perón, nasce il “peronismo” come movimento popolare, nazionale e sociale. Evita è al centro di quella mobilitazione. E non lo sarà solo come simbolo: nei mesi successivi, prende parte attivamente alla campagna elettorale, parlando alle masse, entrando nelle fabbriche, ascoltando la gente. Il suo linguaggio è diretto, sincero, senza filtri. Non parla al popolo: parla come il popolo.
Tra il 1946 e il 1952, Evita diventa la protagonista della politica sociale del governo peronista. Fonda la Fondazione Eva Perón, che costruisce ospedali, scuole, orfanotrofi, case popolari. Distribuisce vestiti, cure, aiuti ai più poveri. Ma guai a ridurre tutto questo a “carità”. La sua visione è molto più ampia: si tratta di restaurare la giustizia sociale all’interno dell’organismo nazionale, di rendere lo Stato uno strumento della comunità e non un’entità separata da essa.
La fondazione diventa un vero Stato parallelo, ma non nel senso negativo del termine. Essa rappresenta una forma diretta di azione sociale, in cui la burocrazia viene aggirata e il popolo riceve ciò di cui ha bisogno con dignità.
Emancipazione, oltre il femminismo liberale
Evita è anche protagonista della lotta per il voto alle donne, conquistato in Argentina nel 1947. Fu un traguardo storico, frutto di un impegno instancabile e profondo, non solo politico ma esistenziale. Tuttavia, ancora una volta, va sottolineato: la sua visione dell’emancipazione femminile non si inscrive nel solco del femminismo liberal e individualista di matrice anglosassone.
Non si tratta di “carriera”, “parità salariale” o “quote rosa”, declinazioni che concepiscono l’uguaglianza come mera assimilazione al modello maschile, riducendo la donna a un individuo concorrenziale nel mercato del lavoro.
Per Evita, la donna è altro. È la madre della patria, la guardiana silenziosa ma incrollabile dei valori spirituali e morali, la spina dorsale invisibile ma essenziale della comunità nazionale. La sua idea di emancipazione non si misura in termini economici o giuridici, ma in termini di missione. Non chiede di rompere con la tradizione, ma di trasfigurarla. Non ambisce a una sterile equiparazione funzionale tra i sessi, ma a una valorizzazione del principio femminile nella sua interezza: accoglienza, dedizione, capacità di soffrire per amore.
Il suo attivismo politico femminile ha come centro non l’individuo isolato, ma la famiglia, la protezione dei deboli, il sacrificio come fondamento della civiltà. Il volto dell’emancipazione non era l’ambizione personale, ma la maternità allargata all’intera nazione.
In un celebre discorso, Evita affermò che le donne non devono lottare per “diventare come gli uomini”, ma per portare nella politica “l’amore, il coraggio, la giustizia” che sanno incarnare nella vita quotidiana. In queste parole risuona una visione antimaterialista e sacrale della donna, che rifiuta tanto il maschilismo degenerato, che riduce la donna a oggetto, quanto il femminismo individualista, che la priva della sua funzione simbolica e sociale. La donna, secondo Evita, non deve essere un doppione dell’uomo, ma la portatrice di una luce diversa, complementare, necessaria.
Evita Perón incarna dunque una forma di femminilità politica che sfugge alle categorie dominanti del dibattito contemporaneo. Una via che non nega la differenza, ma la sublima; che non riduce la donna a consumatrice di diritti, ma la eleva a custode del destino collettivo. La sua lotta non è quella del soggetto atomizzato che rivendica uno spazio contro l’altro sesso, ma quella di una madre che difende e costruisce, che dona senza riserve, che unisce invece di dividere.
In questo senso, Evita parla ancora oggi a chi rifiuta la logica della competizione come modello sociale, a chi intuisce che il progresso autentico non può consistere nella disgregazione dei legami naturali, ma nella loro rifondazione in chiave etica e comunitaria.
Lo scontro con le Élite
Evita, fin dall’inizio, è odiata dalle classi alte argentine. La chiamano con disprezzo "la cabecita negra", per sottolineare le sue origini popolari. La accusano di demagogia, di nepotismo, di populismo. Ma il loro odio è la miglior prova del suo coraggio. Evita non si è mai piegata ai salotti buoni, non ha mai cercato l’approvazione dell’oligarchia o dei media.
Ha sempre parlato chiaro: il nemico era la plutocrazia apolide, il capitalismo selvaggio, la servitù nei confronti degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. La sua lotta era quella per una terza posizione, né con il comunismo internazionalista, né con il capitalismo liberal.
Nel 1951, le masse peroniste chiedono che Evita si candidi alla vicepresidenza. La proposta trova l’opposizione delle Forze Armate e dei conservatori. Lei inizialmente accetta, ma poi si ritira pubblicamente, pronunciando un discorso memorabile in cui rinuncia all’onore per amore del popolo. Malata, consapevole del poco tempo che le resta, sceglie di non dividere il fronte, di non cercare il potere per sé.
Questo gesto, apparentemente solo politico, è di grande valore simbolico e identitario per la sua figura. Rifiutare il potere per servire il popolo: è questo il segno della vera grandezza. Non è una rinuncia debole, ma una testimonianza forte della sua missione.
Morte e mito
Evita muore il 26 luglio 1952, a soli 33 anni. Ma la sua morte non è la fine: è l’inizio del mito. Le masse piangono, il popolo si inchina. Il suo corpo imbalsamato viene nascosto, profanato, trasportato in segreto per l’Europa. Il potere ha paura anche del suo cadavere. Perché Evita è diventata simbolo, bandiera, coscienza.
La sinistra internazionale ha cercato di appropriarsene, ma la sua eredità non è marxista. È profondamente nazionale, popolare, organica. È una visione comunitaria della società, in cui ogni cittadino è parte viva di un destino collettivo. È la convinzione che lo Stato debba servire la giustizia, non il mercato. È la certezza che la patria sia la casa spirituale di tutti, non un’entità amministrativa.
Evita oggi
Per chiunque abbia una sensibilità di Destra Sociale Evita è una figura da studiare, da comprendere, da valorizzare. La sua forza viene dall’aver saputo unire identità e giustizia, ordine e solidarietà, Stato e popolo. In un’epoca di disgregazione, il suo esempio ci ricorda che la politica deve essere missione, servizio, sacrificio.
Evita non fu perfetta, e la sua Argentina non fu un paradiso. Ma fu un’esperienza reale di governo popolare, fondata su valori nazionali, con una concreta attenzione ai bisogni sociali. Un modello alternativo alla dittatura del denaro, al dominio delle élite apolidi, alla sterilità ideologica dei partiti borghesi. Un modello che, oggi più che mai, parla a chi sogna una Nuova Europa dei Popoli, una Nuova Patria Sociale.
«Me ne vado ma resto con Voi», disse Evita nel suo ultimo discorso. Quelle parole non sono retorica, sono un giuramento.
Evita vive. Vive nel ricordo dei poveri, nelle bandiere dei lavoratori, negli occhi delle madri. E mi auguro vivrà anche nei cuori di una nuova generazione di giovani, fieri della propria identità, pronti a lottare per una società più giusta, forte e solidale.
Giacomo Cenesi






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