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Andrea Parrino

Eugenio Scalfari, il camaleontismo politico che non ci piace

Gli inizi:


Una malattia del tutto italiana dalla quale stentiamo a voler guarire è l’ipocrisia, soprattutto in politica. Sorvoliamo volentieri su politici che cambiano idea per tornaconto e ci scordiamo troppo spesso dei loro ideali di partenza. Il problema maggiore è che, molto spesso, queste figure dedite alla pratica del voltagabbana vengono eletti come modelli ed esempi di etica professionale.

Mi duole dover scomodare, a proposito, il tanto amato Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e L’Espresso, descritto da molti (soprattutto di sinistra) come un giornalista “dalla schiena dritta”. Nessuno mette in dubbio le sue qualità cronistiche e di scrittura, ma tocca però delineare tutte le parti della sua storia. Classe 1924 da Civitavecchia, frequenta due licei classici, prima il Terenzio Mamiani di Roma e poi il Gian Domenico Cassini di Sanremo dove condividerà l’esperienza scolastica con Italo Calvino.


In gioventù, Scalfari ricopre il ruolo di fascista modello: balilla a sei anni, diviene poi avanguardista a quattordici e infine Giovane Fascista per la sua esperienza all’università. Ciò che gli permette di iniziare l’esperienza giornalistica è Roma Fascista, organo editoriale dei Gruppi Universitari Fascisti, mentre era studente di giurisprudenza. Proseguì poi con l’esperienza del Nuovo Occidente, venendo nominato caporedattore di Roma Fascista nel 1942.


Il giornalismo politico lo attrae subito, ma entra presto in contrasto con Carlo Scorza, vicesegretario del Partito, per alcuni corsivi anonimi, in cui accusava diversi gerarchi di aver guadagnato milioni di lire speculando sulla costruzione dell’Eur. Di fronte al gerarca, intenzionato a perseguire gli accusati, il giovane Scalfari da prova della propria professionalità confessando che alla base delle accuse vi erano generiche dicerie. Il gerarca reagisce accusando il giornalista di essere un imboscato e lo prende materialmente per il bavero strappandogli le mostrine dalla divisa del partito e proibendogli di indossarla nuovamente.


La riflessione si apre però con una frase, detta dallo stesso Scalfari, che fa molto pensare rispetto all’esperienza nei GUF: «Non me ne sono mai vergognato, anzi. L’esperienza del fascismo ha contribuito poi a rendere solido il mio antifascismo». I più buoni stenteranno nel vedere incongruenze, quelli più maliziosi si accorgeranno però che si tratta di uno dei tanti esempi di camaleontismo politico. Il buon Scalfari, insomma, si è preoccupato di condannare lo scempio fascista solo nel momento della caduta e della fine inoltrata di quest’ultimo, quando il consenso verso il Regime era ormai nullo e la carriera nelle sue gerarchie interdetta. Fa strano quindi che un intellettuale del suo calibro, che credeva fortemente nella camicia nera, abbia poi sviluppato un ferreo antifascismo, dichiarato ovviamente nel momento più comodo e semplice. Ma lo scivolone antifascista, purtroppo, non è l’unica macchia che gli si può affibbiare. Gli scettici rimasti verranno convinti da altri voltafaccia scalfariani che mi accingo a citare.


Il disinvolto cambio dei partiti:


Nel dopoguerra aderisce al Partito Liberale Italiano, dove resterà per dieci anni, fino al 1955, anno della fondazione di L’Espresso. Nell’autunno del ‘55 Scalfari diviene poi uno dei maggiori referenti del gruppo milanese legato al Partito Radicale. Diciamo che, se cambiare idea è sintomo di intelligenza, lui ne disponeva da vendere.


Dodici anni dopo, Scalfari pubblica insieme a Lino Jannuzzi, giornalista e amico, l’inchiesta sul SIFAR, il servizio militare interno protagonista della strategia della tensione, che rende pubblico il supposto tentativo di colpo di stato del generale De Lorenzo, chiamato “Piano Solo”. L’inchiesta entra però nell’occhio del ciclone del generale che querela sia Jannuzzi che Scalfari, detto fatto: condannati entrambi a 15 e 14 mesi. Il piano, predisposto con il benestare del Presidente della Repubblica Antonio Segni, figura alla storia come una contromisura in difesa dell’ordine repubblicano da attuare in caso di necessità.


È a questo punto che entra in gioco l’ennesimo partito della storia del fondatore di Repubblica: per salvarlo dal carcere il Partito Socialista gli offre infatti l’immunità parlamentare, che salverà, poi, anche Jannuzzi. Non contento, però, il civitavecchiese si fa poi eleggere come deputato alle elezioni del 1968, mantenendo l’incarico fino al 1972, quindi per una sola legislatura. Tra l’altro, nello stesso gruppo parlamentare si troverà anche Bettino Craxi, all’epoca trentaquattrenne, che dominerà la scena politica negli anni successivi.


Sul giornalista dirà: «Un geniaccio, con un carattere fragile, instabile… Se avesse alternato i colloqui coi finanzieri a qualche incontro con gli operai, be’, direi che non gli avrebbe fatto male». Mentre Scalfari parlerà della propria esperienza parlamentare con disinteresse: «A Montecitorio mi annoia mortalmente». Non si capisce quindi quale fu il suo fine.


Indro Montanelli provò a fare un’ipotesi: «Di lui non ho un’opinione precisa, so che ha fatto parecchi soldi. La sua ambizione è sfrenata e scoperta. Ma vuole arrivare a qualcosa, o vuole fuggire da qualcosa?»


Non me ne vogliano i suoi ammiratori, ma la tesi esposta è talmente fondata, tanto da essere confermata anche da un intellettuale fine (e onesto) come Italo Calvino, che così si espresse sul nostro: «fanatico fascista, arrivista, incompetente, ignorante, buffone». Questi i “complimenti” di Calvino rivolte al ex compagno di liceo. Sui suoi repentini cambi di ideali e di partito, Scalfari disse: «Hanno scritto che sono stato fascista, monarchico, socialista, azionista, comunista, demitiano... ed il bello è che è tutto vero».


Francamente, un’affermazione così non merita il commento. Non ce ne vogliano i suoi ammiratori.

Andrea Parrino

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