top of page

Emanuele Zilli, l'omicidio antifascista che l'Italia ha dimenticato

Il 5 novembre del 1973, nel cuore di Pavia (recentemente teatro di una nuova aggressione antifascista), muore Emanuele Zilli, operaio, sindacalista Cisnal e militante del Movimento Sociale Italiano.


ree

Tre giorni prima, il 2 novembre, il giovane veniva trovato riverso sull’asfalto, accanto al proprio motorino. Aveva venticinque anni, ma già una moglie, Giuseppina, e due bimbe piccole, Patrizia e Vincenza.


Morì dopo tre giorni di coma, a causa – sostiene la ricostruzione ufficiale – di un tragico incidente. Nessuno dei suoi camerati, però, ha mai creduto, davvero, a questa versione.


Oggi, a più di cinquant’anni di distanza, la storia di Emanuele Zilli non ha ancora trovato posto nella memoria nazionale, complici, da un lato, le sigle dell’antifascismo militante, che, Anpi in testa, da sempre ne osteggiano il ricordo; dall’altro la destra istituzionale, colpevole di non essersi mai spesa davvero per propiziare una ricostruzione dei fatti oggettiva, alternativa alla comoda vulgata antifascista.


L’omicidio di Emanuele Zilli nell’Italia degli anni di piombo e della violenza rossa


Quando Emanuele Zilli fu aggredito e ucciso, l’Italia stava vivendo a pieno gli anni di piombo, l’odio rosso colpiva spesso, e spesso era impunito, e ancor più spesso era giustificato dalla politica e dal mondo della cultura. Anche Pavia, città universitaria, respirava quell’aria pesante. La “caccia al fascista” era pratica diffusa: chi militava nel MSI o nel Fronte della Gioventù lo faceva consapevole di rischiare ogni giorno la propria vita.


Zilli, come la gran parte dei suoi camerati, era un militante onesto, impegnato nel sindacato Cisnal e nella vita cittadina. Aveva lavorato duramente per garantire un futuro alla propria famiglia, dopo essersi trasferito dall’Abruzzo in Lombardia. Ma la sua sola fede politica bastò a renderlo un bersaglio.


Già nel ‘72 era stato vittima di pestaggi e ritorsioni. Aggredito più volte, finì in carcere dopo una rissa in piazza, che lo aveva visto in netta minoranza. Le autorità scelsero la via più comoda: punire chi si difendeva, non chi attaccava. In quegli anni, la giustizia non era cieca: guardava, semplicemente, da una parte sola.


La sera del 2 novembre 1973


Tornando ai fatti, il 2 novembre del 1973 Emanuele esce da lavoro, era impiegato della ditta Bertani, verso le 18.30, quindi sale sul motorino per tornare a casa. Ma a casa non arriverà mai: sarà, invece, ritrovato a pochi metri di distanza dal parcheggio, con il volto tumefatto e segni di percosse. Accanto a lui, il ciclomotore intatto.


Le autorità parlano subito di incidente, ma la tesi non regge: doppia frattura cranica, un occhio pesto, un graffio profondo sul mento, compatibile tanto con il cinturino di un orologio, quanto con quello dell’eskimo. La perizia medicolegale è piena di contraddizioni: “aperte tutte le ipotesi”, riporta. Un modo elegante per non dire nulla.


Questa la verità fattuale che nessuno volle mai verificare: Emanuele Zilli era stato ucciso, vittima dell’odio antifascista che insanguinava l’Italia.


Il silenzio della memoria e la Pavia che non volle vedere


Nei giorni successivi alla morte, la città non reagì: nessuna condanna, nessuna presa di posizione, fatto salvo per la richiesta di giustizia dell’MSI, alla quale, però, lo stesso Partito non rimase fedele negli anni, perché, racconta Stefano Losurdo (amico e camerata di Emanuele), la notizia dell’omicidio si fermò ai quadri locali, senza mai raggiungere Giorgio Almirante.


Pavia tornò presto, quindi, alla propria quiete, come se nulla fosse accaduto. La famiglia Zilli restò sola. Una moglie di ventun anni e due figlie piccolissime dovettero convivere con il dolore di un’ingiustizia doppia: quella dell’omicidio e quella della rimozione.


Col passare degli anni, il nome di Emanuele Zilli sparì anche dalla memoria della destra istituzionale. Anche per questo, ricordarlo nel 2025, come continuano meritoriamente a fare le realtà militanti, significa lottare, contro tutto e tutti, per restituire a un militante l’onore di essere ricordato come un soldato caduto per l’Idea.


Quella di Zilli non è solo la storia di un ragazzo di destra ammazzato mezzo secolo fa, è il simbolo di un’Italia che ha scelto una memoria parziale. Per decenni – è noto – la narrazione pubblica ha avuto un solo dogma: il martirologio rosso. Le vittime dell’altra parte sono state dimenticate e cancellate dalle cronache


E il fatto che oggi gli eredi, o in alcuni i componenti stessi, della sinistra di allora si scomodino un poco per ricordare – sempre timidamente – un altro omicidio antifascista, quello di Sergio Ramelli, non può rappresentare alcuna soddisfazione. Tanto più perché anche Sergio, da vittima della violenza antifascista e dell’odio comunista, va, piano, piano, ma sempre più di frequente, trasformandosi in un martire della generica violenza politica. E questo, ahinoi, capita spesso anche nei discorsi della destra istituzionale e di chi lo ha conosciuto.


La storia di Emanuele è, al contempo, unica e uguale quelle di tanti suoi camerati uccisi due volte: la prima dalla mano di chi li ha odiati, la seconda dal silenzio di chi non trova (più) il coraggio di ricordarli come Tradizione insegna.


Matteo Respinti

Commenti


Il Presente è il quotidiano di cultura, informazione e formazione della destra militante italiana, è diretto da Matteo Respinti.

Questo sito non è una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001. Le immagini e i video pubblicati sono tratti da internet e, per tanto, valutati di pubblico dominio: qualora il loro uso violasse diritti d’autore, lo si comunichi alla redazione che provvederà alla loro pronta rimozione.

© Copyright Il Presente 2024 - Tutti i diritti riservati.

bottom of page