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Caporetto? Caporotto: una mano (truccata) di carte

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Di Gianluca Padovan


Il gioco delle carte (truccate)


Rivangare il passato non è utile, setacciarlo è invece molto utile. Pertanto non crediate di cavarvela con una letturina da due minuti.



Il succo della faccenda: 24 ottobre 1917, ore 2.00 del mattino, Austriaci e Tedeschi attaccano il fronte est italiano sfondando innanzitutto la conca di Plezzo-Caporetto. Per farvi digerire il "polpettone", e indurvi ad arrivare fino in fondo, vi anticipo una cosetta, che “ai più” è sfuggita e “ai meno” non è venuta voglia di raccontarla fino in fondo.


Eccola.


Settore di Plezzo-Caporetto: la notte del 23 ottobre 1917 il generale Pietro Badoglio non era al suo posto di comando al Monte Ostri Kras, ma in retrovia nel villaggio di Kosi. Perché? Perché stava poco bene? Attenzione: stava poco bene anche il generale Capello?


Detta così parrebbe una storiella che ci si racconta giocando a “tresette col morto”, ma c’è poco da ridere. Questo scherzo della sorte (riferito a chi comandava i soldati) è costato vite umane, e non poche.


Ora diamo uno sguardo alla situazione del fronte. A seguito dell’11a Battaglia dell’Isonzo, anche nota come “Battaglia della Bainsizza”, avvenuta tra il 18 agosto e il 12 settembre 1917, le truppe italiane avevano conquistato, per l’appunto, l’Altopiano della Bainsizza. Vista la situazione generale del fronte gli “Austro-Ungheresi” chiedono aiuto ai Tedeschi per poter sferrare a loro volta un attacco e proprio tra il Monte Canin a nord e il Monte Santo-Altopiano della Bainsizza a sud, con al centro, chilometro più, chilometro meno, il ridente paesino di Caporetto.

 

Passare, ovvero rinunciare alla propria mano



Cominciamo a parlare del ritiro da parte di Francia e Inghilterra dell’artiglieria pesante, dislocata lungo il fronte italiano. Così scrive Saverio Cilibrizzi:


«Fin dal 21 settembre 1917, Cadorna, essendo stato informato che sulla linea dell’Isonzo arrivavano continuamente forze avversarie dal fronte russo, comunicò agli alleati ch’egli era costretto a sospendere qualsiasi offensiva per provvedere a “riordinare le forze e predisporre una salda difesa ad oltranza su tutta la fronte”» (Saverio Cilibrizzi, La disfatta di Caporetto. I responsabili tra storia e leggenda. Cadorna Capello e Badoglio, Edizioni Res Gestae, Milano 2014, p. 10).


In effetti, varie fonti rendono successivamente informato lo Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano sul fatto che si sta preparando un’offensiva, e per l’esattezza nel settore che comprende la Conca di Plezzo – Caporetto. Ma Francia e Inghilterra, comunque, «non solo non credettero ad un prossimo attacco austriaco, ma si fecero anche un dovere di ritirare i 99 cannoni di medio e grosso calibro, inviati, alcuni mesi prima, sul nostro teatro di operazioni. E la richiesta del ritiro di questi pezzi di artiglieria venne fatta con un linguaggio secco, che dette chiaramente la “impressione di durezza voluta”» (Ivi).

 

Poker d’inefficienza



Come ci si prepara a sfondare le linee italiane? Si addestrano reparti speciali, si motiva la truppa, si fanno tante cose utili dal punto di vista bellico, ma una sola fa la differenza. E sinceramente, guardando la parte italiana, non so come destreggiarmi tra due parole: “inettitudine” e “tradimento”. Quindi torno ai preparativi “austrotedeschi”.


Costoro puntarono tutto sulla mano vincente, quella armata di aggressivi chimici, ovvero i “gas di guerra”. Difatti sapevano bene che i soldati italiani erano stati equipaggiati con delle porcherie, le quali erano indegne di essere denominate “maschere antigas”. E, poi, tutti i poveri fanti le avevano in dotazione? Ecco un utile passo per comprendere meglio (a questo proposito vedere l’Appendice, alla seconda parte).


Scrive Vasja Klavora: «I lanciamine “Livens” arrivavano a una distanza massima di 1.800 metri. Il gas adoperato era il fosgene già sperimentato, oltre ad altri veleni che evaporavano con facilità. Lo scopo era di ottenere nel più breve tempo possibile la più altra concentrazione tossica in vicinanza del nemico. Questi attacchi avvenivano soprattutto di notte quando non c’era troppo vento. Il sistema degli attacchi con il gas imponeva continui perfezionamenti ed aumento della produzione. In seguito agli attacchi inglesi, i tedeschi che avevano subito perdite fortissime si videro costretti ad incrementare la produzione di lanciagas. Smisero di far “soffiare il gas” -cioè di farlo uscire dai contenitori- e istruirono a parte unità esperte nei reggimenti numero 35 e 36. Poco dopo i battaglioni adibiti al lancio erano già nove (…). La distribuzione dei lanciamine era fatta in modo che su ogni metro del fronte giungesse un tubo, vale a dire 1.000 al chilometro. Potevano essere lanciati contemporaneamente 20.000 chilogrammi di fosgene o di un gas simile (…). Seguendo l’esempio inglese, i tedeschi decisero di usare anch’essi la nuova arma e dopo Arras scelsero Plezzo come prima zona di prova della nuova arma (…).

In quattro notti, cioè dal 19 al 23 ottobre, il carico pericoloso fu trasferito alle posizioni vicine a Plezzo. Vi lavorarono 1200 uomini e l’ultima notte ne furono aggiunti altri 811 scelti dalla 22a divisione che si stava preparando all’attacco. Dei mille tubi previsti ne furono portati alle posizioni soltanto 894» (Vasja Klavora, La Croce Blu. Ottobre 1917 l’attacco con i gas a Plezzo, Nordpress Edizioni, Chiari (Bs) 2002, pp. 114-117).


L’attacco venne accompagnato anche da un cannoneggiamento mediante granate caricate a gas. Per quanto riguarda il risultato leggetevi il capitolo di Klavora intitolato Lo sterminio nella conca di Plezzo.


Attenzione: sui “gas di guerra” vedere utilmente APPENDICE - Gas! La morte silenziosa nella seconda puntata del pezzo.

 

Un giocatore di tutto rispetto: von Below



Come per ogni vicenda storica, ognuno racconta la propria. Qualcheduno asserisce che l’attacco “austrotedesco” fu per i Comandi italiani una sorpresa, ma la maggior parte afferma il contrario. Ed io vi riporto quanto ha scritto il generale tedesco Otto von Below, al quale il giorno 9 settembre 1917 venne affidato il comando della XIV Armata tedesca, destinata al fronte italiano per l’offensiva d’ottobre.


Nel suo Diario scrive a proposito di disertori passati agli Italiani: «20.X.1917. Sul Mrzli [Monte Mrzli, a est del Fiume Isonzo, a mezza via tra Caporetto e Tolmino. N.d.A.] oggi è passato al nemico addirittura un ufficiale effettivo austriaco di origine rumena assieme a un tenente di complemento. È un certo Tichi. Egli aveva avuto il comando di un battaglione ed era stato anche ufficiale d’ordinanza della 50a divisione austriaca.


Si era portato via una raccolta di ordini del III Battaglione della Guardia con i relativi disegni che avremmo trovato più tardi a Creda nel comando del IV corpo di armata italiano ed a Cormons nel quartier generale di Capello. Il disertore conosceva però la data del 22 come giorno di inizio dell’offensiva, per cui, quando per quel giorno non successe niente, l’avversario ebbe delle incertezze» (Francesco Fadini, Caporetto dalla parte del vincitore. La biografia del generale Otto von Below e il suo diario inedito, Vallecchi, Firenze 1974, p. 354).


Precisa von Below riferendosi al disertore “Tichi”: «23.X.1917. (…) Dalle intercettazioni radio avevamo saputo che il nemico aveva mandato rinforzi sul Matajur e sullo Xum indicati come nostri obiettivi da quel manigoldo del rumeno» (Ibidem, p. 356). Quindi, senza girarci tanto attorno, i Comandi italiani sapevano dell’imminente attacco degli “austrotedeschi”. Eppure più di un generale italiano ha continuato a dormire.

 

Poker d’assi



Il “fronte est” oggetto dello sfondamento è tenuto innanzitutto da quattro generali: Cadorna, Capello, Emanuele Filiberto di Savoia e Badoglio.

 

  • Luigi Cadorna, conte (Pallanza 1850 – Bordighera 1928). È figlio del conte e generale Raffaele Cadorna (1815-1897), il cui fratello Carlo Cadorna (1809-1891) è un politico, liberale, seguace di Camillo Benso conte di Cavour, ministro dell’Istruzione Pubblica (1848-1849 e 1858-1859) e dell’Interno (1868), capo del centro-sinistra, presidente della Camera (1857), ambasciatore a Londra (1868-1875) e Presidente del Consiglio di Stato. Senatore nel 1912, Luigi Cadorna nel luglio 1914 è nominato capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Cura le fasi finali di costruzione della cosiddetta «Frontiera Nord», nota oggi con il nome di «Linea Cadorna». A seguito della “disfatta di Caporetto” è sostituito al comando dal Generale Armando Diaz. Nel 1924 diviene Maresciallo d’Italia. Suo figlio, Raffaele Cadorna (1889-1973), conte, generale e politico, nel 1943 è comandante della Divisione Ariete 2a, dopo l’8 settembre entra nella “Resistenza”, diviene capo di Stato Maggiore (1945-1947) e infine senatore.

  • Luigi Capello (Intra 1859 – Roma 1941). Partecipa alla Campagna di Libia (Guerra Italo-Turca), è Comandante della 2a Armata nella Prima Guerra Mondiale, ma è posto “a riposo” a seguito della “disfatta di Caporetto”. Dai soldati è ricordato con il soprannome di «macellaio». Nel dopoguerra è prima favorevole al Fascismo, ma nel 1925 organizza con Tito Zaniboni un attentato a Benito Mussolini. È ricordato anche per l’organizzazione delle ronde a protezione di talune sedi della Massoneria.


  • Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta (Genova 1869 – Torino 1931). È Comandante della 3a Armata nella Prima Guerra Mondiale, ma il suo settore non è direttamente coinvolto nello sfondamento di Plezzo-Caporetto. E così la propaganda d’epoca lo immortala come “duca invitto”. Ovviamente un grande e pesante velo viene steso sulla sua applicazione della decimazione tra i soldati mediante fucilazione senza processo e, difatti, “svicola” l’inchiesta. Successivamente diviene Maresciallo d’Italia congiuntamente ad altri generali, tra cui Badoglio.


  • Pietro Badoglio, marchese del Sabotino (Gazzano Monferrato -oggi Gazzano Badoglio- 1871 – 1956). Partecipa alle Campagne di Eritrea e di Libia, nella Prima Guerra Mondiale è a capo del XXVII Corpo d’Armata; a seguito della “disfatta di Caporetto” diviene Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito e collaboratore del Generale Armando Diaz. Nel 1918 negozia l’armistizio di Villa Giusti, è Commissario Straordinario della Venezia Giulia nel corso delle vicende di Fiume, è senatore nel 1919 e tra 1919 e 1921 è Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e si occupa della riorganizzazione delle opere difensive confinarie. Inoltre è ambasciatore in Brasile (1924-1925), capo di Stato Maggiore Generale nel 1925, Maresciallo d’Italia nel 1926, Governatore della Libia (1929-1933) e nel 1935 è comandante in capo delle truppe italiane in Etiopia. A seguito dell’arresto di Benito Mussolini, re Vittorio Emanuele III gli affida la formazione del nuovo Ministero. Dopo la resa annunciata l’8 settembre firma il successivo documento di resa a Malta; il 13 ottobre 1943 dichiara guerra alla Germania, mantiene il “ministero tecnico” fino al 22 aprile 1944 ed ha l’appoggio di Palmiro Togliatti (P.C.I.) nella formazione del nuovo governo italiano.

 

La “mano” della disfatta



La serratissima partita a carte che determina la vicenda dello sfondamento si gioca tra:


  1. Cadorna che impartisce gli ordini,

  2. Capello e Badoglio che non li eseguono alla lettera,

  3. Capello che torna sui suoi passi,

  4. Badoglio che intima alle batterie di non sparare sugli “austrotedeschi” avanzanti.


Su questo poker si sono, come si suole dire, versati fiumi di inchiostro. E qui altri io non ne verso. Però mi limito a riportare un passo del generale Krafft von Dellmensingen: «considerando che gli italiani, attraverso le relazioni dei disertori, dovevano essere perfettamente al corrente di ciò che si andava preparando, il loro atteggiamento propose ai comandanti tedeschi un vero e proprio enigma.


Solamente verso la sera del 21, il 22 e il 23 mattina l’azione delle artiglierie e delle bombarde avversarie aumentò in maniera sensibile, senza tuttavia provocare danni più gravi. Ciò, d’altra parte, finiva per coincidere esattamente con i nostri movimenti precedentemente previsti per il 22 ottobre: che il nemico doveva ritenere come il giorno iniziale dell’offensiva, almeno stando ai documenti venuti in suo possesso tramite i disertori.


Ma dopo questo breve risveglio gli italiani tornarono alla calma consueta, con ciò comprovando com’essi non avessero capito che la minaccia d’un attacco andava combattuta nel modo più efficace prima ch’esso si scatenasse» (Krafft von Dellmensingen, 1917 lo sfondamento dell’Isonzo, a cura di Gianni Pieropan, Arcana Editrice, Milano 1981, p. 80).


Seguirà una seconda parte, nel frattempo di Padovan potresti voler leggere: 20 ottobre 1944: la strage di Gorla e il “terror bombing” americano su Milano


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Scatola metallica porta maschera antigas “Modello grande”, contenente “maschera polivalente Z”, di fabbricazione francese, in dotazione ai soldati italiani nella Prima Guerra Mondiale.

Dettaglio della parte interna della maschera, la cui “imbottitura” andava imbevuta con liquidi che avrebbero dovuto trattenere gli agenti chimici aggressivi: in realtà era inefficace. Si trattava di uno dei “migliori modelli” forniti ai militari italiani.

Primo piano della scatola metallica che conteneva la maschera antigas, “Modello grande”.

Foto di Gianluca Padovan

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