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Contro il Salento Pride e la mercificazione dell’identità

Anche quest’anno a Lecce, puntuale come un rito svuotato di ogni reale tensione ideale, si è svolto ieri il Salento Pride.



Sotto la retorica dei “diritti” e dell’“inclusività”, si è consumato un evento che non ha più nulla di realmente ribelle o liberatorio, e che appare sempre più come una passerella funzionale al mercato, alla politica spettacolo e al turismo estivo.


All’origine, il Pride nacque come lotta sociale – condivisibile o meno che fosse – in un contesto storico ben diverso. Oggi, invece, si è trasformato in tutt’altro: una manifestazione identica a se stessa, replicata ovunque, fatta di slogan in inglese, paillettes, sponsor multinazionali e selfie coi politici di turno. Si pretende di combattere l’omologazione globale, ma se ne produce l’ennesima fotocopia, utile solo a vendere biglietti, cocktail e merchandising.


La provocazione come maschera


C’è, però, qualcosa di ancora più inquietante dietro questa facciata colorata: il gusto ossessivo per la provocazione fine a sé stessa, l’ostentazione dell’osceno come cifra identitaria, il bisogno quasi compulsivo di colpire, offendere e dissacrare.


È come se il loro unico modo per sentirsi vivi fosse aggredire simboli che non comprendono più, distruggere ciò che resta del sacro e del limite, ridicolizzare tutto ciò che non appartiene alla sfera del desiderio individuale. È la vittoria del nichilismo travestito da festa: dietro i coriandoli, resta solo il vuoto.


In questa trasformazione, il Pride è diventato anche il teatro dell’insulto facile: slogan raccapriccianti contro avversari politici, che non hanno nulla a che vedere con il confronto pubblico, ma somigliano piuttosto a urla scomposte da carnevale eccessivo.


Dissacrazione e spettacolo


E non solo: anche quest’anno sono comparse immagini dissacranti e volutamente provocatorie, dove la Madonna, Cristo o altre figure della tradizione religiosa sono state ridotte a caricature, vestite da drag queen o deformate in travestimenti osceni, non per aprire un dialogo, ma per scioccare, per scandalizzare, per consumare la blasfemia come provocazione di maniera.


Come scrisse Pier Paolo Pasolini, che pure non era certo "dei nostri", ma che ebbe la lucidità e il coraggio di vedere oltre le apparenze, «la tolleranza è la nuova forma di repressione»: non si reprime ciò che disturba davvero, lo si assorbe, lo si svuota e lo si trasforma in spettacolo innocuo. Ed è proprio ciò che è avvenuto: una parata che, in nome della libertà assoluta, rifiuta ogni limite, trasformando la lotta in folklore, la differenza in gadget, la dissacrazione in gesto teatrale ripetuto e prevedibile.


L’ultima ribellione


Si parla sempre di “orgoglio”, ma non si parla mai di radici, di comunità, di responsabilità verso qualcosa che ci precede e ci trascende. Evola parlava di “tradizione come trascendenza”: non come rigida nostalgia, ma come orizzonte più alto che da senso e misura alla libertà.


Oggi, invece, resta solo un orizzonte piatto: la celebrazione infinita dell’io e del desiderio, come unico orizzonte possibile. Nessuna parola sulla crisi di senso che attraversa l’Occidente, sulla denatalità, sulla dissoluzione dei legami che facevano di un popolo qualcosa di più di un insieme di individui.


La retorica del Pride, con i suoi sponsor e i suoi selfie, serve solo a distrarre: trasforma la questione dell’identità in un festival, dove ciò che conta è scandalizzare e compiacersi della propria trasgressione, che però è sempre più ripetitiva e sempre meno coraggiosa.


E la verità più scomoda è che dietro la maschera del “liberi tutti” non c’è libertà, ma solo un vuoto disperato che si finge festa. Non c'è ribellione, ma un rituale codificato che rassicura chi comanda davvero. Non c’è comunità, ma un insieme di individui che sfilano per esibire se stessi e nulla più.


Il 12 luglio Lecce ha avuto la sua parata di slogan, travestimenti e provocazioni da palcoscenico.


Ma la vera trasgressione, oggi, è dire che l’identità non è una maschera, che il sacro non è carnevale, che la libertà non è fare ciò che si vuole, ma scegliere ciò che vale. E chi osa dirlo, oggi, non è reazionario: è davvero l’ultimo ribelle.


Mattia Gallotta

 
 
 

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