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C'è del bene nel colonialismo italiano, oltre l'odio della sinistra


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In Italia, è risaputo, del periodo coloniale del nostro Paese o non si parla o, quando lo si fa, lo si può fare solo per criticarlo in ogni modo possibile. Ovviamente, a vigilare sul fatto che se ne parli male è soprattutto il mondo della (cosiddetta) cultura di sinistra. Ovvero, quel mondo di livello culturale infimo, che da anni coltiva lacune storiche e stereotipi al solo fine di alimentare l'odio politico e non certo per rendere conto dei fatti e della storia.


L'esempio più recente di quanto affermato è stata la mobilitazione contro la conferenza Italia coloniale – Il colonialismo italiano tra storia e leggenda nera, tenuta sabato 21 settembre all'Aquila, e che ha visto la presentazione della trilogia di volumi Bugie coloniali, del saggista Alberto Alpozzi.

Non appena la notizia dell'incontro a tema colonialismo si è diffusa, gli agenti dormienti hanno allertato le cellule locali di ANPI, Rifondazione Comunista, dei Giovani Democratici e, dulcis in fundo, l'irriducibile cronista rosso Paolo Berizzi. Le forze dell'odio anti-italiano si sono scagliate contro l'iniziativa di cui sopra.


L'odio anti-italiano della sinistra che distorce la storia:


Il motivo è presto detto. Approfondire la storia del Paese causa malumori a sinistra; da quelle parti preferiscono coltivare lo stereotipo dell'italietta incapace, che in Africa pensava solo a coltivare banane e che ogni tanto gassava abissini e libici, perché, si sa, i fasci (eterna ossessione della sinistra italica) a Tripoli e Mogadiscio han fatto solo stragi e disastri.

Il male assoluto del colonialismo italiano è, da tempo quasi immemore, un pallino della sinistra. A questo proposito, c'è un aneddoto poco noto ma interessante: negli anni Ottanta, il Presidente somalo, Mohammed Siad Barre, giunto in visita in Italia, incontrò il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, al Quirinale. In quell'occasione, il prode Pertini, desideroso di far bella figura e mostrare il suo buon cuore, chiese ufficialmente scusa per la sofferenza causata dall'Italia al popolo somalo. Mohammed Siad Barre replicò che non c'era di che scusarsi, perché la Somalia doveva solo ringraziare l'Italia (il disappunto di Pertini fu incommensurabile).


Finché si continuerà a ignorare i fatti e la storia, nel nome dell'ideologia, imbarazzi come questo saranno inevitabili.


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Somalia, l'ultima colonia italiana per volere ONU:



Il colonialismo italiano ha una storia antica. Già il Regno di Sardegna, con Cavour, aveva adocchiato alcuni territori in Africa e nel Borneo, ma il battesimo dell'esperienza coloniale avvenne solo a fine Ottocento, quando si concretizzarono l'occupazione dell'Eritrea e della Somalia.

In più, pochi lo sanno: l'avventura in Africa del nostro Paese non si concluse con la nostra disfatta nella Seconda guerra mondiale, ma nel 1960. Infatti, dal 1950 al 1960, la Somalia fu posta dall'ONU sotto l'amministrazione italiana, al fine di guidarla verso l'indipendenza. L'Italia, ex potenza dell'Asse, sconfitta nel secondo conflitto mondiale, otteneva nuovamente una sua ex colonia in amministrazione dall'ONU.

La decisione fu motivata da diversi fattori. In primo luogo, l'Italia aveva un legame forte con le sue ex-colonie e, poi, il governo di De Gasperi aveva insistito fortemente per riottenere una parte dei possedimenti coloniali. Nello specifico, il Ministro degli Esteri, il Conte Carlo Sforza, repubblicano e antifascista della prima ora, aveva formulato la richiesta, con l'appoggio dell'omologo britannico, di conservare le colonie conquistate dall'Italia liberale (Eritrea, Somalia e Libia).

La proposta non passò alla votazione dell'ONU del 1° ottobre del 1949, per un solo voto, quello del delegato di Haiti.

Due grandi protagonisti del colonialismo italiano:



Altro grande tema, aizzato spesso dall'ignoranza della sinistra in materia di storia coloniale, sono lo sfruttamento e le stragi perpetrate dall'Italia nei confronti dei popoli colonizzati. Ahinoi, anche qui, si fa molta caciara senza raccontare davvero i fatti.

A questo proposito, ci sono due grandi uomini che meritano di essere menzionati, perché si distinsero in terra d'Africa: il Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia, e il Viceré dell'Africa Orientale e Duca d'Aosta, Amedeo di Savoia. Zio e nipote, accomunati non solo dall'appartenenza alla Real Casa, ma anche dall'amore per l'Africa.



Il Duca degli Abruzzi, che fu uno dei maggiori esploratori e avventurieri italiani del secolo scorso, negli anni '20 si trasferì in Somalia. Lungo il corso dei fiumi Giuba e Uebi Scebeli diede avvio a un'opera di fondazione agraria, con la costruzione di dighe e opere di canalizzazione che permisero lo sviluppo agricolo con la produzione di cereali, canna da zucchero, frutta e tabacco.

Tali opere, che videro l'edificazione del Villaggio Duca degli Abruzzi, diedero beneficio tanto ai coloni italiani quanto alle popolazioni locali; l'industria e l'operosità italiana resero fertile e produttiva quella terra. Questa opera pionieristica era un sogno lungimirante del Duca:

«La Somalia ha un grande avvenire, ma dipende da noi, dalla nostra voglia di lavorare: noi italiani e indigeni, tutti insieme e d'accordo nel comune interesse.» Quando Sua Altezza scomparve nel 1933, per sua volontà fu tumulato nel paese da lui edificato perché: «Preferisco che intorno alla mia tomba s'intreccino le fantasie delle donne somale, piuttosto che le ipocrisie degli uomini civilizzati.»



Il nipote Amedeo seguì le orme dello zio, tant'è che nel 1923 si laureò in giurisprudenza all'università di Palermo con una tesi in diritto coloniale, intitolata I concetti informatori dei rapporti giuridici fra gli stati moderni e le popolazioni indigene delle colonie. Esaminando il problema coloniale, soprattutto nell'aspetto morale, nel testo asserisce che l'imposizione della sovranità di uno Stato straniero sugli indigeni si giustifica moralmente solo col miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni colonizzate.

Questo fondamento teorico si tradurrà in pratica nel '37, quando egli divenne governatore generale dell'Africa Orientale Italiana e Viceré dell'Etiopia, terra appena conquistata e dominio in subbuglio per via delle forti resistenze anti-italiane.

Amedeo di Savoia, piuttosto che azioni di repressione (come quelle intraprese da Graziani), preferì una politica di accordi. La costruzione di opere pubbliche e il rispetto degli usi locali lo fecero presto ben volere dagli abissini; i ras sostenevano che il Viceré era il più grande nemico dell'indipendenza dell'Etiopia perché, con i suoi modi, faceva dimenticare alla popolazione il regno del Negus.

Il lavoro di Amedeo fu grande e complesso; egli stesso sosteneva: «Dovrò governare, non regnare. Dovrò donare a quei popoli la sensazione che stanno entrando a far parte di una civiltà che non li vuole sfruttare, ma aiutare ad elevarsi, a migliorare in tutti i campi.»

Il suo lavoro fu ben presto travolto dai fatti della Seconda guerra mondiale, con l'eroica resistenza dell'Amba Alagi e l'onore delle armi concesso dagli inglesi, fino alla triste e prematura morte in prigionia. Ma l'opera del Duca d'Aosta non fu dimenticata; il Negus Hailé Selassié ebbe sempre grande rispetto per questa figura e in più occasioni accolse ad Addis Abeba la vedova Anna di Francia e il nipote omonimo, Amedeo Duca di Savoia, il quale difese sempre la memoria dello zio additandolo come esempio per pacificare e costruire un'Africa migliore.




Concludendo, rendiamoci conto che abbiamo una storia ricca e grande, anche nelle vicende coloniali. Invece di blaterare come fanno i compagni trinarciuci di guareschiana memoria, approfondiamo questa pagina.

Gli esempi non mancano: Asmara, la "piccola Roma d'Africa", è un tripudio di stili architettonici e artistici dal liberty al razionalismo, patrimonio UNESCO; Mogadiscio e Rodi, restaurando le opere del periodo italiano, hanno un ricordo forte e non lo cancellano.

Ancora oggi, sui fiumi Uebi Scebeli e Giuba in Somalia e il Tessenei in Eritrea, ponti, dighe e canali ricordano le opere costruite dagli italiani, terra e lavoro che fecero fiorire la civiltà.


Alessio Benassi


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