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Trattativa o sacrificio: l’ostaggio è lo Stato


Cinquantacinque giorni. Settimane di angoscia. Il periodo più buio nella storia della Repubblica. Il processo al quale verrà sottoposto da un “Tribunale del Popolo”, che si concluderà con il suo assassinio, non si limita alla persona di Aldo Moro in qualità di statista, bensì all’operato collettivo della Democrazia Cristiana e dei partiti dell’arco costituzionale nel loro insieme.


La cronaca del rapimento e della prigionia è ben nota e accuratamente documentata: il 16 marzo 1978, mentre si recava in Parlamento per votare la fiducia al quarto governo Andreotti, il primo ad ottenere il sostegno (esterno) del Partito Comunista Italiano guidato da Berlinguer, un commando delle Brigate Rosse bloccò la strada in via Fani, uccise i cinque uomini della scorta e rapì il Moro; più tardi i brigadisti rivendicarono l’azione con una telefonata all’ANSA. Nelle settimane seguenti vennero recapitati nove comunicati delle BR; in particolare, suscitò clamore il comunicato numero tre, al quale era allegata una lettera scritta da Moro e indirizzata al Ministro degli Interni Cossiga. Nella missiva il Presidente della DC diceva di trovarsi «sotto un dominio pieno ed incontrollato» e auspicava fossero intraprese azioni volte ad «evitare guai peggiori». Nonostante fosse stata intesa come riservata, le BR resero pubblica la lettera, adducendo come giustificazione che «niente deve essere nascosto al popolo». Il loro obiettivo era sì avere il riconoscimento politico, ma soprattutto usare l’effetto provocato dalla pubblicazione per screditare la reputazione morale di Moro presso l’opinione pubblica, nonché destabilizzare la maggioranza di Governo, pronta a suggellare il c.d. “compromesso storico” di cui lo statista fu promotore e regista.


Il Parlamento si schierò sulla linea della fermezza, opponendosi in maniera compatta a qualunque ipotesi di trattativa con i sequestratori. Nemmeno la lettera indirizzata a Zaccagnini, il Segretario della DC, nella quale Moro affermava che «Le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone», né i tanti appelli, diretti e indiretti, ad un intervento attivo di Papa Paolo VI, suo amico fin dai tempi dell’università, riuscirono a muovere la situazione. Il comunicato numero sei, ritrovato il 15 aprile a Roma, segnò la fine del “processo popolare” e la condanna a morte del Presidente

della DC. «Le responsabilità di Aldo Moro sono le stesse per cui questo Stato è sotto processo.» recitava il documento.


Lo scenario politico, allora, cambiò: se da un lato il Papa scrisse agli «uomini delle Brigate Rosse» per «pregare in ginocchio» di restituire «alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l'onorevole Aldo Moro […] semplicemente, senza condizioni» - espressione che, in seguito, fu oggetto di accesi dibattiti e polemiche - dall’altro Bettino Craxi fu il primo leader a spostarsi su una diversa posizione insieme al proprio partito. Nell’ottavo comunicato le BR elencarono i nomi dei tredici terroristi di cui chiedevano la liberazione, tra i quali vi erano Curcio e Franceschini. Il 30 aprile, con una telefonata a casa Moro, i brigadisti affermarono che «solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore di Zaccagnini può modificare la situazione». Il Partito Socialista Italiano, guidato da Craxi, individuò quali possibili soggetti di scambio due terroristi detenuti, ma gravemente malati, ai quali il Presidente della Repubblica Leone era disposto a concedere la grazia, ma il Presidente del Consiglio Andreotti ribadì la propria intransigenza. Il 5 maggio l’ultimo comunicato affermava: «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Sentenza eseguita quattro giorni dopo, il 9 maggio 1978. Il corpo senza vita del Presidente fu ritrovato nel portabagagli di una Renault 4 rossa in via Caetani, esattamente a metà strada tra la sede della DC e la sede del PCI.


La vicenda Moro offre numerosi spunti di riflessione sul ruolo che i personaggi politici del tempo, il Vaticano e tutte le Istituzioni ebbero nel tragico destino cui fu consegnato il Presidente. Ebbene sì, il termine “consegnato” riassume il significato di un concetto, quello della ragion di Stato, che lo stesso statista aveva provato a confutare dalla sua prigionia.

«Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile.»

Queste le parole scritte nella prima lettera recapitata a Cossiga: interpretate quale mero desiderio individualistico di avere salva la vita, erano invece espressione della dottrina politica di Moro, che contestava l’inutilità degli “argomenti del rigore” in certe situazioni politiche. La ragion di Stato, quell’ideologia che legittima ogni decisione del Potere nella difesa di un bene comune, collettivo e generale, di fatto nasconde la violenza dietro al valore quasi spirituale del sacrificio, ma questo richiede che la vittima acconsenta ad essere tale oppure non abbia parola in merito. Moro ne era tanto consapevole da pregare i colleghi di partito, gli amici della FUCI, chiunque potesse agire, di adoperarsi per una soluzione alternativa. La risposta del sistema politico italiano, al contrario, fu una vera e propria espropriazione dell’identità e della credibilità del Presidente: dissero che le sue lettere non erano autentiche, che lo statista non era lucido né credibile a causa della condizione di prigioniero. In questo modo, Moro venne privato della sua dignità e consegnato alla sua sorte di vittima sacrificale.


Per quanto l’interesse supremo dello Stato allora fosse quello di negare all’organizzazione delle Brigate Rosse lo status di apparato politico, anche a costo di sacrificare una vita umana innocente, è doveroso ricordare che l’ostaggio non era un uomo qualunque, bensì un rappresentante delle Istituzioni e dunque lo Stato medesimo.


A prescindere dalle molte teorie che vedono un intervento di potenze estere nella gestione della vicenda, perciò, si può affermare che il caso Moro simboleggia un fallimento del Governo e della politica tutta, così intenta a dimostrare la propria forza da non realizzare di aver abbandonato se stessa alla morte. Non è casuale, in questo senso, che di lì ad una decina di anni i principali partiti di governo, dalla DC al PCI, ormai logorati dalle tensioni interne (correntizie) e sociali dell’epoca, svanirono completamente.


Quarantacinque anni dopo, ci resta il ricordo di uomo immenso, eccezionale sul piano culturale prima ancora che politico, sempre pronto ad ascoltare ed interpretare le esigenze di una società in fermento. Una figura dai solidi principi etici e morali che dovrebbe rappresentare una guida per la classe dirigente di oggi e di domani.


Alessia Antoniazzi

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