Questa sessione di calciomercato è stata fin qui dominata non tanto da una squadra, quanto più da un’area geografica: la penisola araba. Le ricche e importanti famiglie arabe, proprietarie di squadre sia in Europa che nei propri Paesi, hanno iniziato ad acquistare talenti pagando cifre folli e stravolgendo il mercato. La domanda da porsi, però, è: perché lo stanno facendo?
Quali squadre sono arabe e che acquisti hanno fatto?
In Europa le squadre di proprietà di fondi di investimento arabi sono tre: il Paris Saint Germain, il Manchester City e il Newcastle, rispettivamente di proprietà del qatariota Al-Khelaïfi, dell’emiratino Manṣūr e del principe saudita Bin Salman.
PSG e City negli anni hanno abituato il mercato a spese folli, come i 222 milioni pagati per Neymar o i 117 milioni per Grealish, cifre mostruose che hanno portato a dei risultati tardivi e soddisfacenti solo per la compagine inglese, campionessa d’Europa quest’anno.
La vera rivoluzione, tuttavia, è stata l’entrata nel mercato dell’Arabia Saudita con l’acquisto da parte del presidente del fondo PIF, Mohammed Bin Salman, del Newcastle nel 2021. In appena due stagioni la squadra inglese è passata dall’essere a rischio retrocessione a qualificarsi alla prossima Champions League. Quest’anno, ai club già citati, si sono aggiunte quattro squadre della Saudi Pro League sconosciute fino a un anno fa: l’Al-Hilal, l’Al-Nassr, l’Al-Ittihad e l’Al-Ahli, che in questa sessione hanno acquistato campioni del calibro di Benzema, Kanté, Milinkovic-Savic e Brozovic.
A questi nomi si aggiunge quello di Cristiano Ronaldo, già arrivato nella sessione di gennaio.
Questi acquisti sono stati particolarmente sconvolgenti per due motivi: innanzitutto, per le cifre proposte ai giocatori (parliamo di stipendi da almeno 30/40 milioni all’anno) e, in secondo luogo, per il fatto che campionati poco seguiti come quello saudita, di solito, acquistavano giocatori a fine carriera e con scarse prospettive di crescita in Europa; in questa sessione, invece, sono arrivati anche giocatori nel pieno della loro forma e ricercati dalle migliori squadre europee.
Chi sono i proprietari delle squadre della Saudi Pro League?
In Europa siamo abituati a normative molto stringenti nel calcio che impediscono, ad esempio, a un presidente di essere proprietario di due squadre iscritte allo stesso campionato. Claudio Lotito, infatti, è stato due anni fa costretto a vendere le quote di maggioranza della Salernitana promossa in Serie A essendo già proprietario della Lazio.
In Arabia Saudita non esistono norme di questo tipo, per questo tutte e quattro le squadre citate sopra sono di proprietà dello stesso fondo. Il fondo sovrano PIF presieduto da Mohammed Bin Salman. Lo stesso uomo proprietario del Newcastle e, soprattutto, il principe regnante dell’Arabia Saudita. In pratica la Saudi Pro League è una lega monopolizzata dalla famiglia regnante in cui un uomo solo possiede tutti i club più importanti e tiene le redini di ogni aspetto del campionato come un burattinaio.
Vision 2030: il piano Saudita di egemonia geopolitica
Nonostante, come descritto sopra, anche Qatar ed Emirati Arabi Uniti abbiano effettuato i loro investimenti nel calcio, appare chiaro come l’Arabia Saudita sia il Paese che più di tutti e con i metodi più efficaci sta riuscendo a imporre il proprio ruolo nello sport più amato dagli europei.
Tuttavia, questa conquista silenziosa non sarebbe possibile senza un disegno politico ben preciso e dettagliato: Vision 2030. Vision 2030 è un quadro strategico con diverse finalità, la prima di esse è rimescolare il modello economico saudita per ridurre la dipendenza dal petrolio e rilanciare settori come i servizi e il turismo, proiettando quindi l’Arabia Saudita nell’albo dei Paesi moderni e sviluppati.
Tali obiettivi di carattere economico, però, si affiancano a un’idea di promozione della cultura saudita, allo scopo di esportare in Europa e nel mondo la cultura millenaria degli arabi. La storia insegna come gli stati giovani, nati da pochi anni, desiderino sempre promuovere una forte identità culturale, al fine di rafforzare la coesione nazionale per imporre politiche economiche dure ma necessarie allo sviluppo nazionale. Inoltre, la promozione della cultura all’estero diventa un modo per attirare turisti ed investitori e per creare una sfera di influenza politica da sfruttare.
Questo è il motivo per cui i Sauditi investono così tanto nel calcio, al fine di dimostrare la loro forza, di mostrare il loro modello sportivo, di creare un rivale ai campionati europei. Vision 2030 è molto più di un modello di sviluppo economico, è un piano per la creazione di una sfera di influenza duratura fondata sull’esercizio di quello che Clinton avrebbe definito il soft power. Questo termine indica un sistema di esercizio del potere basato su un’interdipendenza degli stati tra loro e su una collaborazione che giova a tutte le parti basata su dei chiari rapporti di forza. Dunque, è proprio alla creazione di questi rapporti di forza che punta l’Arabia Saudita.
Le colpe della Uefa e come difendersi
Una volta analizzate le cause del fenomeno c’è da chiedersi come sia stato possibile che i Paesi della penisola araba abbiano potuto mettere in pratica con successo il loro piano di conquista del calcio. In primis vi sono le colpe di Čeferin e della Uefa, i quali hanno lasciato che grandi fondi arabi acquistassero società europee e iniziassero a spendere quantità folli di denaro ignorando qualsiasi concetto di sostenibilità economica.
Paris Saint German, Newcastle e Manchester City hanno praticamente avvelenato il calciomercato, acquistando giocatori anche mediocri per cifre esagerate, finendo per gonfiare i prezzi di tutti i calciatori. Un tempo spendere 30 milioni di euro per un difensore era ritenuta una spesa esorbitante, e stiamo parlando della cifra che spese il Milan per acquistare dalla Lazio Alessandro Nesta, uno dei migliori difensori della storia. Oggi il prezzo anche dei difensori è lievitato, con giocatori come Maguire, Laporte, Hakimi, sempre pagati più di 50 milioni di euro.
La Uefa, oltre a non controllare i bilanci e le pratiche sottobanco di questi club ha spesso intrattenuto rapporti molto vicini con i fondi arabi, tanto che non sorprenderebbero scandali di corruzione nell’ente anche visti i precedenti nel Parlamento Europeo. Già, anche il Parlamento Europeo ha le sue responsabilità, come dimostrato dall’inchiesta Panzeri che ha portato alla luce giri di mazzette tra europarlamentari per spingere ad approvare la tanto discussa scelta di ospitare il mondiale in Qatar, Stato arretratissimo in termini di diritti sociali, civili, di tutela dell’essere umano e di libertà fondamentali.
Se i grandi enti preposti al controllo sono corrotti, dovrebbero essere i club a cercare di creare uno scudo di difesa contro lo strapotere arabo, tuttavia, quando arrivano offerte monstre per i propri talenti, è difficile rifiutare, soprattutto ricordando che il calcio è, per molti presidenti, un’attività d’impresa da cui si desidera guadagnare.
L’ultimo schermo di difesa sono allora i tifosi, solo loro possono influenzare un settore che senza di loro non esisterebbe. Senza i tifosi non si vendono biglietti allo stadio, non si vende il merchandising, non si hanno ricavi dai diritti televisivi. L’unica speranza è che sempre più tifosi si rendano conto che per salvare lo sport che amano devono rinunciare a guardare delle partite, da casa e allo stadio. Rinunciare a vedere i fenomeni che ora hanno scelto l’Arabia e scagliarsi contro quei club che uccidono il mercato con spese folli è ora l’unica strada. Si tratta di una scelta di cuore che potrebbe non bastare, tuttavia, a causa della miopia dei grandi enti, sono i tifosi l’ultimo baluardo dello sport più amato al mondo.
Matteo De Guidi