La riforma del premierato è scomparsa da qualche tempo dal dibattito pubblico, dopo l’approvazione al Senato del giugno dello scorso anno. Ad oggi la riforma è ancorata alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati.
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In questo articolo voglio proporre ai nostri lettori uno sguardo d’insieme sulla “madre delle riforme”. Nello specifico, approfondiremo che cosa dice il testo, punto per punto, e quali sono gli elementi per cui essere ottimisti e quali, invece, quelli più controversi.
Premierato: una critica al progetto attuale
Parto subito con una critica. L’attuale proposta di riforma costituzionale non è quella che Giorgia Meloni e il centrodestra hanno inserito nel programma di governo ai tempi della campagna elettorale per le elezioni del 2022.
Per essere precisi, ai tempi il progetto era quello di un semipresidenzialismo alla francese. Il premierato – a detta del Presidente del Consiglio e del ministro per le Riforme, Elisabetta Casellati – nasce per venire incontro alle opposizioni, che, pregiudizialmente, si erano dette contrarie a qualsiasi tentativo di riforma di governo, avanzata dalla coalizione di centrodestra.
Peccato che neanche il premierato, una sorta di presidenzialismo light, sia andato loro bene. Intendiamoci: per riformare la Costituzione senza passare per il referendum (situazione auspicabile, dato che i referendum in passato hanno riservato brutte sorprese a diversi leader politici) servono i 2/3 dei voti in entrambe le Camere: che la maggioranza di centrodestra non ha.
Il premierato, in realtà, nasce da una vecchia proposta di Cesare Salvi, allora senatore del Partito Democratico della Sinistra e componente della famosa Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, presieduta da Massimo D’Alema, tra il 1997 e il 1998.
Ma allora, dato che non va bene neanche un’idea di riforma proposta dal vecchio centrosinistra, perché non si è proposto il progetto originale del semipresidenzialismo?
L’ombra di Renzi
Non era forse meglio proporre un vero e proprio presidenzialismo, sicuramente più stabile del modello francese? E, dato che ci siamo, perché non affrontare anche la questione del bicameralismo perfetto, un’eccentricità tutta italiana?
Ho trovato una sola risposta plausibile: Giorgia Meloni non ha dimenticato quanto successo a Matteo Renzi il 4 dicembre 2016, quando gli italiani bocciarono sonoramente il suo intento riformatore.
Il progetto di Renzi era molto ampio, infatti al suo interno si annoveravano: l’abolizione del CNEL, un bicameralismo differenziato, la modifica dell’iter legislativo di alcune leggi, l’elezione del Presidente della Repubblica e altro ancora. Un progetto così era davvero ambizioso, si toccavano quasi una cinquantina di articoli della Costituzione, che ne ha 139.
Di fronte alla grandezza della riforma renziana, ho pensato alla famosa massima “più sono grossi, più fanno rumore quando cadono”. E il rumore di Renzi è stato devastante: è passato da essere Presidente del consiglio a capo di un partito che riuscì ad ottenere il 40%, ad essere uno dei tanti membri dell’opposizione chiassosa a capo di un partito nato a settembre 2019 e perennemente sondato, da allora, fra il 2 e il 3%. Solo un accordo sottobanco - che durò un paio di mesi - con Carlo Calenda riuscì a garantirgli una manciata di seggi nel Parlamento attuale.
Penso che il timore di Giorgia Meloni risieda proprio qui: ha paura di esagerare, di proporre una grande riforma e di vedersela bocciare dagli italiani. Ha paura di fare la stessa fine di Matteo Renzi. Per questo ha deciso di optare per il premierato, che è una forma di governo tanto innovativa quanto semplice da spiegare agli italiani.
Cosa propone in sostanza il testo?
Il testo si presenta snello. Verrebbero modificati solo 7 articoli della Costituzione, che sono davvero pochi rispetto ai vecchi tentativi di riforma costituzionale.
I senatori a vita
La riforma, all’articolo 1, prevede l’abolizione della figura dei senatori a vita. Sarebbe fatta salva sono una figura di senatore a vita, cioè il Presidente emerito della Repubblica.
Il secondo comma dell’articolo 59 sancisce che il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario.
L’unico aspetto positivo che riconosco in questa figura è di natura storico-sociale: sono figure simboliche, sono gli unici parlamentari non elettivi e rappresentano la cosiddetta “società civile”.
Nella nostra storia sono stati senatori a vita personaggi che ancora oggi ricordiamo, e molti si trovano anche nei libri scolastici: Rita Levi-Montalcini, Gianni Agnelli, Norberto Bobbio, Eugenio Montale, don Luigi Sturzo e molti altri ancora. Queste personalità potrebbero dare (e in passato hanno dato) un apporto più “esterno” al Parlamento, proponendo disegni di legge ed emendamenti utili nei loro rispettivi campi di competenza.
Gli aspetti negativi che potrei elencare, invece, penso siano tre.
In primis, come dicevo poc’anzi, si tratta di parlamentari non elettivi. Essendo non eletti, ma nominati, si snaturerebbe il senso stesso del lavoro del parlamentare, che dovrebbe portare gli interessi del popolo in Parlamento.
In un sistema come il nostro, i parlamentari rappresentano sì la Nazione, ma nella stragrande maggioranza dei casi sono legati a un territorio che li ha eletti, basti pensare ai parlamentari vincitori di un seggio uninominale, e che – chi più, e, ahi noi, chi meno – fanno visita proprio in quelle città della loro circoscrizione elettorale nelle giornate in cui non si svolgono i lavori parlamentari.
Il punto è, quale legame col popolo può avere un senatore a vita, nominato da un Presidente della Repubblica che, nell’attuale sistema, viene eletto indirettamente?
In secundis, una questione di numeri: con il taglio dei parlamentari avvenuto a seguito del referendum del 2020, i senatori elettivi sono passati da 315 a 200. Questo può causare dei problemi in tutti quei casi in cui la maggioranza parlamentare di un Governo sia più “risicata” al Senato rispetto alla Camera.
Un esempio su tutti: il secondo governo Prodi fu salvato almeno due volte dai voti decisivi dei senatori a vita, che furono “pregati” di presentarsi in aula e votare la fiducia. In un Senato ancor più striminzito rispetto a quegli anni, piaccia o no la riforma del taglio dei parlamentari, è come se il voto in aula e nelle commissioni dei senatori a vita acquisisse un valore in più rispetto a quello degli altri senatori elettivi.
Infine, una questione che riguarda le presenze, le assenze e le missioni parlamentari. Gli attuali 5 senatori a vita sono molto assenti. Solo una, Elena Cattaneo, partecipa (anche attivamente) al 37% dei lavori in Senato.
Addirittura Renzo Piano non ha partecipato a nessuna seduta, né della scorsa, né dell’attuale legislatura. Liliana Segre risulta presente per lo 0,8% delle sedute, mentre per il restante 99,2% risulta in missione, vale a dire una specie di “assenza giustificata”, in quanto impegnata in un incarico ricevuto dal Senato oppure in attività connesse ad altri incarichi politico-istituzionali.
Carlo Rubbia risulta al 100% in missione, mentre invece l’ex premier Mario Monti ha partecipato alle sedute in misura dello 0,7%, assentandosi il 3,4% e risultando in missione per il 95,9%. I motivi delle assenze sono vari e possono andare dal comprensibile stato di salute di alcuni agli impegni lavorativi e personali di altri.
Le modifiche ai poteri del Presidente della Repubblica
Agli articoli 2, 3 e 4 della riforma sono previste alcune modifiche ai poteri in capo al Presidente della Repubblica.
Noi sappiamo che il Presidente della Repubblica viene eletto a scrutinio segreto dal Parlamento in seduta comune insieme ai delegati delle Regioni, a maggioranza di due terzi dell’assemblea per i primi tre scrutini, mentre dal quarto scrutinio in poi basta la maggioranza assoluta, cioè la metà più uno.
L’articolo 2 va cambiare il numero di scrutini: la maggioranza assoluta sarà richiesta dal settimo scrutinio in poi, mentre la maggioranza dei due terzi sarà necessaria fino al sesto.
L’articolo 3 incide invece sul potere di scioglimento delle Camere, e cioè sull’articolo 88 della Costituzione. Ad oggi è previsto che il Presidente della Repubblica possa, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse, e che non può esercitare questa facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano del tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura.
La norma fu pensata dai costituenti per evitare che un Presidente “desideroso” di essere rieletto, una volta accortosi della contrarietà del Parlamento, decidesse di scioglierlo sperando in un risultato elettorale a lui più favorevole con un Parlamento rinnovato.
L’intero articolo 88 è da molti costituzionalisti ritenuto anacronistico, da una parte perché non è mai accaduto che un Presidente abbia sciolto solo una Camera, dall’altra perché è ormai consolidato che il Presidente della Repubblica svolga il ruolo di arbitro neutro, e non ci sono mai stati tentativi espliciti di mantenimento del potere in tal senso.
Tant’è che già il Presidente Segni, nel 1963, aveva chiesto alle Camere di eliminare il cosiddetto semestre bianco. Richiesta rimasta inascoltata fino ad oggi: la riforma si propone di sopprimere le parole «o anche una sola di esse», facendo sì che il Presidente possa sciogliere Camera e Senato in blocco (come fa, del resto, da 77 anni), e che possa sciogliere comunque le Camere anche negli ultimi 6 mesi del suo mandato in caso di voti di sfiducia. Il nuovo articolo 88 infatti, dirà: «Non può esercitare tale facoltà [di sciogliere le Camere] salvo che lo scioglimento costituisca atto dovuto».
Piccola nota: la riforma purtroppo, non contempla l’introduzione di un divieto di rielezione del Presidente della Repubblica, dato che la nostra Costituzione tace su questo tema. Nel 2013, al momento della rielezione del Presidente Napolitano, questa venne raccontata come un’eccezione.
Dopo la rielezione del Presidente Mattarella avvenuta nel 2022 però, abbiamo assistito a una specie di “triste consuetudine”: a mio parere il mandato di 14 anni al Quirinale cozza poco e male con i principi fondanti della nostra Costituzione, anche guardando alla durata delle altre cariche, elettive e non. Peccato, un’occasione sprecata.
L’articolo 4 della riforma invece si propone di fare chiarezza nel primo comma dell’articolo 89 della Costituzione, che riguardava la controfirma presidenziale. Fino ad oggi, «nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità». Ci sono però degli atti che, pur essendo controfirmati dai ministri, sono considerati dalla dottrina formalmente e sostanzialmente presidenziali.
Il nuovo articolo 89 reciterebbe così: «Gli atti del Presidente della Repubblica sono controfirmati dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Non sono controfirmati la nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, la nomina dei giudici della Corte costituzionale, la con cessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi alle Camere e il rinvio delle leggi».
La ratio della modifica sarebbe quella di introdurre elementi di equilibrio in una riforma che punta a rafforzare la figura del Presidente del Consiglio, mettendo per iscritto quali sono gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, in modo da evitare eventuali futuri tentativi dell’Esecutivo di appropriarsi di prerogative del Presidente della Repubblica, mettendolo al riparo da indebite pressioni da parte del Governo.
Il cuore della riforma
Passiamo adesso al cuore della riforma, gli articoli 5, 6 e 7.
L’articolo 5 interviene sull’articolo 92 della Costituzione: «Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri.
Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni, per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente.
La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche.
Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il Governo; nomina e revoca, su proposta di questo, i ministri».
La novità più importante è, ovviamente, l’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente del Consiglio. Finora, il Presidente del Consiglio veniva nominato dal Presidente della Repubblica, e poteva anche non essere un parlamentare (vedi Ciampi, Dini, Draghi), e ciò avveniva o a seguito di elezioni oppure in caso di crisi di governo.
Il grande pregio di questa riforma sta proprio qui: gli italiani potranno finalmente decidere da chi farsi governare per 5 anni eleggendo direttamente il Presidente del Consiglio, che dovrà gioco-forza essere un parlamentare. In altri termini, addio governi tecnici, di larghe intese o di unità nazionale. Non ci saranno più governi come quelli di Enrico Letta, Giuseppe Conte o Mario Draghi.
Altra novità è il premio di maggioranza per garantire la governabilità, ma questo e altri dettagli saranno da decidere tramite una legge elettorale, della quale si inizierà a parlare, verosimilmente, dopo l’approvazione della riforma anche alla Camera.
L’articolo 6 della riforma concilia l’articolo 57 della Costituzione, che prevede che il Senato venga eletto a base regionale, con il riformato articolo 92, che prevede il premio su base nazionale.
L’articolo 7 invece si occupa di fiducia e i casi delle dimissioni del Presidente eletto, andando a modificare l’articolo 94 della Costituzione.
Nella prima parte viene disciplinato il rapporto di fiducia. Il Governo presieduto dal Presidente eletto deve presentarsi alle Camere entro 10 giorni dalla sua formazione per ottenerne la fiducia, e qualora la mozione di fiducia non venga approvata, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo.
Se anche in quest’ultimo caso il Governo non dovesse ottenere la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere. Quest’ipotesi della “fiducia iniziale mancata” è da intendersi come caso limite, come eccezione, e non come regola. Va da sé che, a seguito di un’elezione di un Presidente del Consiglio e della sua maggioranza parlamentare, il voto di fiducia iniziale sarebbe una mera formalità, dato che la maggioranza governativa sarebbe stata già investita di una fiducia “popolare”.
Nella seconda parte dell’articolo 7 si introduce la famosa “norma anti-ribaltone”. Nei casi di revoca della fiducia mediante una mozione motivata (quindi nei casi di mozioni di sfiducia), il Presidente del Consiglio eletto rassegna le dimissioni e il Presidente della Repubblica scioglie le Camere.
Negli altri casi di dimissioni, il Presidente del Consiglio eletto, entro sette giorni e previa informativa parlamentare, ha facoltà di chiedere lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone. Qualora il Presidente del Consiglio eletto non eserciti tale facoltà, il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per una sola volta nel corso della legislatura, al Presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio.
Qui c’è da capire, attraverso la futura legge elettorale, se per “collegamento” si intenda un parlamentare appartenente allo stesso partito del Presidente eletto, oppure, in senso più ampio, un parlamentare di un altro partito della coalizione che lo sostiene.
L’articolo riformato cita subito dopo questo caso, proseguendo così: «Nei casi di decadenza, impedimento permanente o morte del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per una sola volta nel corso della legislatura, a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio».
All’articolo 8, ultimo articolo della riforma, troviamo le norme transitorie. In sostanza viene stabilito che i senatori a vita resteranno in carica ai sensi dell’articolo 59 previgente alla data di entrata in vigore della legge costituzionale.
Infine, si precisa che la presente legge costituzionale si applicherà a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successivi alla data di entrata in vigore della disciplina per l’elezione del Presidente del Consiglio dei ministri e delle Camere. Qui Giorgia Meloni impara dagli errori fatti in passato da Matteo Renzi, che fece approvare prima una sua legge elettorale (l’Italicum) prima dello svolgimento del referendum sulla sua proposta riformatoria.
A seguito della bocciatura della riforma Renzi-Boschi, le due Camere si trovarono ad essere disciplinate in modo assai diverso, e ciò avrebbe creato forti distorsioni per le elezioni successive. Fu allora che si decise, nel 2017, di approvare l’attuale legge elettorale, che ad oggi in verità non piace più a nessuno. Questa legge, detta Rosatellum, disciplinò le elezioni del 2018 che diedero all’Italia un Parlamento frammentato e tre Governi di colori politici variegati, ma allo stesso tempo ha disciplinato anche le ultime elezioni del 2022, dalle quali è risultato invece un esito chiaro e una maggioranza stabile.
Ma non possiamo continuare a sperare che a ogni tornata elettorale si allineino magicamente gli astri. È anche per questa ragione che è nato il premierato, per dare innanzitutto stabilità e certezza al Paese, cosa che per lungo tempo non ha mai avuto (salvo rarissime eccezioni). Non sarà la riforma migliore del mondo, ma almeno è un grande passo avanti che il nostro Paese ha un disperato bisogno di fare.
Alessandro Scimè