«La rivoluzione è come il vento», riscostruiamo la destra militante
- Mattia Gallotta
- 11 mag
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 19 mag
Per una destra militante, sociale e identitaria. Oltre il liberalismo e oltre l’americanismo.

C’è un interrogativo che si fa sempre più urgente all’interno della destra giovanile: chi vogliamo essere? Qual è la traiettoria culturale e politica che intendiamo seguire? Non è né una domanda astratta né oziosa, perché ogni movimento politico o evolve, o si snatura. E oggi, nel cuore dei nostri ambienti, si sta giocando una partita culturale decisiva che riguarda il futuro stesso della nostra identità.
Negli ultimi anni, molte realtà giovanili della destra, da Gioventù Nazionale ad Azione Universitaria, sono cresciute numericamente, si sono strutturate, hanno conquistato spazi, ottenuto ascolto. Tutto questo è positivo e va riconosciuto. Ma proprio nei momenti di ascesa – quando il rischio dell’autocompiacimento e della normalizzazione diventa più alto – è necessario fermarsi a riflettere, e chiedersi: cosa stiamo costruendo? Dove vogliamo andare?
Sempre più spesso emerge, anche nei nostri ambienti, una tendenza ad appiattirsi su modelli culturali che nulla hanno a che vedere con la tradizione identitaria, sociale e comunitaria della destra politica.
Contro il modello americano: no alla destra del mercato e del conformismo
Si assiste a una crescente fascinazione per un certo liberal-conservatorismo all’americana, fondato sull’individualismo proprietario, sul culto del mercato, sulla neutralizzazione dei conflitti sociali. Una retorica che parla solo in termini di competitività, modernizzazione, business, come se la politica fosse un’estensione della logica aziendale.
Ma quella non è la nostra lingua. Non è il nostro DNA. La destra alla quale vogliamo appartenere è altra cosa. È visione del mondo, non amministrazione dell’esistente. È difesa della comunità, non celebrazione dell’individuo isolato. È lotta contro la dissoluzione, non pacificazione con il pensiero unico.
Popolo, giustizia, sovranità: per una destra sociale e contro-egemonica
La nostra è una destra che si sporca le mani, che sta nei quartieri difficili, che parla ai lavoratori sfruttati, agli studenti senza voce, ai giovani disillusi che non si riconoscono nel conformismo dominante.
Non possiamo trasformarci in una “destra educata” nel senso peggiore del termine: istituzionale al punto da essere innocua, addomesticata al punto da non disturbare più nessuno. Non siamo nati per rassicurare, ma per costruire un’alternativa. Una destra che, pur lealmente collocata in una filiera di governo, non rinuncia alla sua funzione contro-egemonica.
Una destra che non si vergogna della parola popolo, che non rifugge il concetto di giustizia sociale, che non teme di contestare – anche dall’interno – le storture del sistema economico liberista, la desertificazione spirituale imposta dalla modernità, il pensiero unico tecnocratico.
Anche sul piano geopolitico, è giunto il momento di dire con chiarezza che la nostra prospettiva non può ridursi a una semplice adesione culturale al modello statunitense. Non abbiamo nulla contro l’alleanza atlantica in quanto tale, ma non possiamo più ignorare il fatto che l’influenza americana si è spesso tradotta in una vera e propria colonizzazione culturale.
Aderire a una linea strategica non significa rinunciare alla propria sovranità spirituale e culturale. Noi siamo europei, figli di Roma, di Atene, della cristianità, della terra, della storia. L’americanismo è un virus che appiattisce tutto sull’economia, sulla performance, sull’egemonia dello stile di vita mercificato. Non dobbiamo combatterlo in modo isterico, ma dobbiamo saperlo riconoscere e contrastare con una proposta autonoma, europea, radicata.
Essere di destra, per noi, non ha mai significato abbracciare il capitalismo globalista. Il capitalismo, nella sua forma finanziaria e apolide, non è nostro alleato. È uno dei motori della distruzione delle identità. Ha svuotato le comunità, mercificato i rapporti umani, dissolto le famiglie, reso il lavoro precario e la casa inaccessibile.
Chi crede che la destra debba semplicemente “gestire” il capitalismo meglio della sinistra, ha già perso in partenza. Noi dobbiamo avere il coraggio di riproporre una terza via, ancorata alla giustizia sociale, al protagonismo del lavoro, alla centralità dello Stato come guida e non come burocrate.
Militanza, cultura, visione: il compito storico della nuova generazione
Questa visione – più esigente, più profonda – non è facile, né immediatamente spendibile. Ma è necessaria. E tocca proprio a noi, alla generazione militante, alla base, nei circoli, nei movimenti universitari, riportare al centro del dibattito politico ciò che conta davvero: la formazione, l’identità, la comunità, la militanza reale. La destra che vogliamo è quella che forma quadri culturali, non solo funzionari. Che costruisce visione, non solo consenso. Che sa educare al coraggio, al sacrificio, all’onore, non solo a parlare in pubblico o a organizzare eventi.
Lo sapevano bene i maestri della destra rivoluzionaria e militante del secondo dopoguerra: da Adriano Romualdi a Pino Rauti a Julius Evola, solo per citarne alcuni. Loro ci hanno insegnato che la politica è spirito, cultura, comunità. Che il nemico non è solo nel palazzo, ma nel pensiero che ci vuole omologati, docili, funzionali al sistema. Hanno parlato – e scritto – di Europa come civiltà, non come mercato. Di militanza come scelta totalizzante, non come investimento personale. Di una destra che sappia essere rivoluzionaria perché radicata nella Tradizione, non nel calcolo.
Non serve creare fratture né alzare steccati inutili. Serve chiarezza. Serve ricordare che il nostro compito non è soltanto quello di affermarci all’interno del sistema, ma di trasformarlo. E che per trasformarlo, non bastano slogan né campagne elettorali. Serve una generazione consapevole, radicata in una storia, capace di pensiero lungo e azione quotidiana. Non ci interessa una destra elegante ma senz’anima. Ci interessa una destra forte, popolare, rivoluzionaria nel cuore.
Essere militanti oggi vuol dire questo: opporsi alla riduzione della politica a carriera, del consenso a marketing, dell’identità a gadget. Vuol dire portare avanti battaglie anche scomode, dentro e fuori le istituzioni. Vuol dire costruire futuro con fedeltà e senza paura.
Noi non siamo qui per gestire l’eredità degli altri. Siamo qui per scrivere una storia nostra. Non imitare, ma incidere. Non adattarsi, ma resistere.
Mattia Gallotta
Grandissimo Mattia!!! È cruciale sottolineare il nostro identitarismo, la nostra intemperanza, il nostro anticonformismo, e la nostra fierezza, che non lasceranno mai al liberal-conservatorismo statunitense di annacquarci. La concretezza, la visione e l'abnegazione secondo il motto "per aspera ad astra" erano, sono e saranno i nostri marchi di fabbrica.